giovedì 22 marzo 2012

Ettore Scola, il lato buffo dell'esistenza e il ricordo di Massimo Troisi

«Scarabocchi personali» di Ettore Scola, in mostra nella Sala Murat di Bari. Il regista disegna il repertorio umano con uno stile incisivo, duro e spigoloso

BARI - Per Ettore Scola i suoi disegni sono qualcosa in più di un pensiero trasformato in tratto grafico, sono, come egli stesso li definisce, «scarabocchi personali, destinati più al cestino che al cassetto». Per chi invece conosce lo Scola regista, quello capace di aspri affondi sociali su una commedia umana tutta italiana, tagliata con sguardi a tutto tondo sui ceffi grotteschi del sottoproletariato, sui saccenti e patetici intellettuali salottieri, sulle delicate solitudini di donne o di omosessuali, questi universi di bizzarre creature aiutano a tratteggiarne meglio la fisionomia creativa.

E’ un’umanità in cerca del «buffo dell’esistenza», costipata in affollati disegni o staccata in più sfoltite ambientazioni, da oggi in mostra a Bari all’interno della Sala Murat in occasione del BifEst. Per l’inaugurazione ufficiale bisognerà aspettare invece il 23 marzo quando ci sarà anche l’autore, che del festival barese è il presidente. La mostra invece sarà visibile fino al 30 marzo e poi proseguirà per Parigi. In realtà lo Scola disegnatore è sempre esistito, da quando giovanissimo partecipava alla rivista satirica Marc’Aurelio, storico magazine di cui condivideva le pagine con mostri sacri del calibro di Fellini, Camerini, Steno, Scarpelli, Marchesi, Metz, Zavattini. All’amico Fellini è peraltro dedicata una microsezione della mostra, dove il maestro è trasformato in un’icona, assolutamente riconoscibile anche quando compare di spalle seduto sulla sedia di scena con l’inconfondibile cappello, o quando campeggia isolato a tutta pagina in una grandezza che suona come un deferente omaggio. Molti dei suoi personaggi di penna, spesso precisati con più marcate identità direttamente nei suoi film, affidati a lapis o a inchiostro di china, disposti su fogli, tovaglioli, e margini di giornali, sono al contrario anonime comparse, esponenti di una variegata tipologia sociale.

Un repertorio umano popolato da nani, donne procaci, ometti opachi, turisti improbabili, incalliti e sfigati spettatori tv, tutti in uno stile compendiario ma incisivo, duro e spigoloso, ideale per una messa a nudo di vizi e virtù. Appena deformate o semplificate nel tratto, le figure si impongono nelle addensate impaginazioni dove si schierano come in un lungo piano sequenza, oppure si palesano in composizioni più rade, dove si impegnano in eccentriche ritualità o citano celebri fumetti, come nel caso del Bobo di Staino. Comunque difficilmente lasciano del tutto indifferenti, piuttosto recapitano quello stesso amaro retrogusto dei suoi più popolari personaggi cinematografici. La celebrazione scoliana avrà il suo punto di forza il 26 marzo quando nella Sala 1 del Multicinema Galleria verrà proiettato il film documentario intitolato Un ritratto di Ettore Scola diretto da Davide Barletti e Lorenzo Conte.

Marilena Di Tursi
Fonte: Corriere del mezzogiorno
 
 
Un disegno di solito è un progetto, organizzato prima mentalmente poi graficamente, quasi sempre ispirato da intenzioni illustrative, ornamentali, celebrative e caricaturali, eseguite per studio, per committenza e per omaggio.
I miei disegni invece - se si escludono le vignette del mio giovanile apprendistato nel settimanale "Marc'Aurelio" e qualche schizzo buttato giù durante la preparazione di un film per chiarire a me stesso e ai miei collaboratori lo spunto iniziale di un carattere, di una scena o di un costume - sono scarabocchi personali, destinati più al cestino che al cassetto.
Sono ghirigori mentali, giochi di parole visivi, segni tracciati per distrazione riflettendo ad altro o a niente.
Li faccio da sempre, su fogli, tovaglioli, margini di giornali (quasi mai su album da disegno), a lapis, a penna a inchiostro di china (mai con l'odiata biro). Non essendo io particolarmente dotato né per il ritratto né per il paesaggio, i miei "soggetti" sono figurine anonime, passanti e astanti irreali che trovano la loro possibile realtà nel riferimento a similitudini, tic e comportamenti di ordinaria quotidianità.
Sono personcine dall'esistenza abbreviata in una sola dimensione, senza chiaroscuri, perplesse nella fissità di un cenno o di uno sguardo: come quando un improvviso pensiero ci blocca per un istante in un gesto a mezz'aria. Ometti di periferia, donnine di case modeste, nudi o vestiti ma sempre alla ricerca di un contegno che sperano di trovare magari mettendo una mano in tasca e avendo un bicchiere nell'altra. Accostati per contrasto, figli giganti e padri nani, mariti minimi e mogli debordanti tentano di farsi notare con una occhiatina allusiva, un passo elegante, un atteggiamento allegro che ci faccia dimenticare la loro mostruosità.
Umanità piccola e malinconica che, se proprio le si vuole trovare uno scopo, è lì per affermare il lato buffo dell'esistente. Che poi è quello che ci aiuta a trovare il coraggio di vivere.


Con Massimo Troisi ci siamo trovati fuori dai film, umanamente. L'ho conosciuto quando ancora non faceva cinema, con La Smorfia. Mi piaceva il suo essere così poco napoletano nelle cose che non mi piacevano, io che sono di mamma napoletana. Era un intellettuale della contronapoletanità, fu contento di lavorare con Mastroianni perché non è che amasse molto fare il regista, mestiere di grande fatica fisica e dispersività. Ognuno vuole fare una domanda al regista che non ha quasi mai una risposta ma deve fingere di averla. Fu un rapporto facile, comodo e facemmo altri due film, nonostante gli dissi che non gli conveniva riguardo gli incassi. Con me faceva film di nicchia, ma lui amava questo. Abbiamo fatto tre film insieme più per il piacere di stare insieme che per i film.
Ettore Scola

Nel video seguente c'è anche Rosaria Troisi, che a proposito di "Che ora è" ci parla del rapporto di Massimo con papà Alfredo con divertenti aneddoti.
  
                                 

mercoledì 21 marzo 2012

In missione al Museo del Cinema di Torino, per Massimo Troisi

La passione è anche militanza. Nel giro di quasi tre anni io, Annalisa e Marta siamo stati al museo del cinema di Torino, ospitato nella suggestiva cornice della Mole. Non abbiamo saputo esimerci dal lasciare una piccola "nota" sul libro degli ospiti. 

"e...l'ultimo italiano entrato nella cinquina dell'Oscar per il miglior film in assoluto? (MASSIMO TROISI)...mò ve lo segno PROPRIO!".

Perché tra tanti grandi non possiamo credere che, in un museo del cinema italiano, ci si sia dimenticati dell'attore-autore partito da San Giorgio a Cremano e arrivato agli Oscar. Perfino di Totò e Peppino non c'è che una piccola foto di un piccolo articolo di un vecchio giornale, nascosta in un angolino.
Detto questo il museo vale una visita, come potrete vedere dal video qui in basso... Massimo lo trovammo, ma soltanto in un libro in vendita allo shop del museo. Di questi tempi è già qualcosa.

Cristiano




                               

sabato 10 marzo 2012

Vestire e abbottonare adeguatamente il ricordo. Il minimo che dobbiamo a Massimo Troisi

Angela è uno degli ultimi regali di Massimo, una di quelle persone rare, che non incontravo da tempo. Una di quelle in cui ritrovi la passione più simile alla tua, lo stesso animo e la stessa predisposizione a certe impressioni, sensazioni, emozioni. Dopo dieci anni di "Amici di Massimo Troisi" ho imparato a riconoscerle a naso. Massimo tocca le stesse, identiche corde in noi, come in altri membri del nostro gruppo. E non si può fare a meno di diventare amico di questi "amici di Massimo". Ci si ritrova, ci si confronta e arricchisce, ci si diverte in una strana e stupenda alchimia. E in virtù di una passione vera, calda e genuina, disinteressata e lontana da idolatrie mitomani, riverenze obbligatoriamente politically correct. La passione è la stessa ma ognuno ha la sua personalità, le sue sfumature, il suo carattere. Indipendentemente da Massimo ma più forti, grazie a lui e alla vera passione, di distanze geografiche e anni che passano veloci.
E così ho sentito subito un pò anche mio il racconto di Angela, e sarebbe stato così anche se non avessi fatto parte di quella giornata. Una giornata per Massimo, con Massimo e...i suoi e miei amici.
Cristiano

 
       
Sono trascorsi solo pochi giorni…eppure è già memoria.  
Ve lo dico così: domenica 19 febbraio ho visto Massimo. Non è stato facile, ovvero tremendamente difficile. Provo ad esporre le impressioni e purtroppo l’inquietudine, forse anche un po’ di delusione per quella giornata che resterà sempre nei miei ricordi. 

Arrivata a Napoli in prima mattinata ho continuato il viaggio insieme ai numerosi utenti della circumvesuviana, ancor più felice al pensiero di seguire quel percorso che chissà quante volte Massimo avrà bazzicato. Appena sono scesa dal treno San Giorgio a Cremano, con aria domenicale, era lì. Io felice, ma molto toccata - con un leggero magone che esitava tra l’accettazione e il rifiuto di venir fuori - ho chiesto informazioni circa la distanza tra lo spiazzo in cui mi trovavo, antistante la stazione, e il cimitero che avrei raggiunto a piedi. Fin qui sentivo come una sorta di ossigenazione, un benessere, forse indotto da un vuoto che per un attimo ho creduto si stesse riempiendo. Mi incammino e comincio ad osservare ogni stradina, palazzo, finestra o balcone con una ripresa visiva quasi vorace, compiaciuta ogni tanto dello stupore di qualche passante, che dallo sguardo penso volesse dirmi: “Sì ‘na forestiera?”.
Nel contempo mi godevo la passeggiata quando, ad un certo punto, la strada si apre dando vita ad uno slargo; mi ritrovo così a cercare con gli occhi, il tempo di girarmi e alla mia destra leggo: PIAZZA MASSIMO TROISI. Immetto aria nel petto e respiro; con lo sguardo provo a seguire il perimetro di quello spazio, accompagnata da una gioia profonda che, a tratti, veniva disturbata dal pensiero costante di raggiungere Massimo. Lascio la piazza alle mie spalle e, nell’indecisione, imbocco la strada che più mi invoglia; con aria alquanto divertita e coccolata dagli sguardi dei sangiorgesi, continuo nel mio viaggio. Avevo dimenticato il calore e la premura di quella gente.  Singolari effetti sortivano i signori anziani, in particolare uno di loro al quale ho chiesto informazioni sul percorso da seguire per il cimitero. Lui, con fare entusiasta, mi ha indicato una sorta di scorciatoia. Tale erano la cura e la gestualità della rappresentazione che per un attimo ho riconosciuto l’immagine di chi ti sta calorosamente prendendo in braccio per portarti a destinazione. Straordinario! 

Mi avvio di nuovo, con la convinzione che prima o poi avrei intravisto le mura e i cipressi di un luogo mai sperato per il ritrovo di un amore custodito. Cammino ancora, scegliendo di poggiare i miei passi sul marciapiede, precisamente quello di destra, onde evitare regolarmente la tipica risalita, frettolosa e necessaria, da azionare all’arrivo di quelle autovetture solite circolare di prima domenica. Anche quest’ultime, incredibilmente, sembrano combinarsi con tutto il resto dello scenario. Ad un certo punto, mentre avanzo, mi giro e sulla sinistra leggo: CENTRO TEATRO SPAZIO. No, non ci sto, non è possibile, allora con una schiettezza improvvisata ed esagerata mi rivolgo a chi forse ho affianco a me e dico: “Massimì, ma che stai facenn’, stai pazziann’? Vuoi accompagnarmi tu?”.
Continuo e penso che mi piace proprio tutto di queste strade; quante migliaia di volte le avrai imboccate? Mi piace veramente tutto, dal negozio allestito per il carnevale, ai signori della pescheria imbrigliati nei loro stivali intrisi d’acqua, intenti a ripulire il selciato esterno, con lo sguardo distratto nel passaggio dei curiosi. Cammino e cammino ancora quando ad un tratto, in lontananza, scorgo una bella chiesetta adornata da una vegetazione rigogliosa. Il tutto incorniciato da un cielo grigio perla, a tratti leggermente trafitto da un lieve sprazzo di sole. Al mio arrivo il vento si fa più forte, non so, quasi a significare un movimento, una risposta di benvenuto in quel silenzio imperturbabile. Comincio a respirare, affretto il passo e penso: “Non so dove riposi, sento di essere vicina e non provo più neanche ad immaginare com’è la tua nuova casa, aspetto solo di vederti.” Chiedo ad un custode che mi dice di seguire dei ragazzi. Tutti accorrono per il tuo giorno. 

Sono arrivata! Mi indicano la congrega di San Raffaele. Entro, provo a cercarti con lo sguardo ma non ti trovo. Un signore mi mostra delle scale, salgo su e inizio a vacillare, vorrei vederti subito ma poi mi fermo e aspetto, è un momento che non vorrei consumare. Dopo un po’ provo ad avvicinarmi, ma sei impegnato con alcuni signori che forse ti conoscevano più di me. Parlano, parlano, raccontando con fervore alcuni aneddoti della tua vita terrena ed io… attendo. Appena vanno via muovo dei passi e mentre provo ad accostarmi mi assale una tenerezza devastante, allora mi chino a terra e avvicinandomi quanto più posso e ti accarezzo. Finalmente ti ho trovato. Che bel vestito che hai! Ti guardo e tu mi sorridi. Per un attimo lascio cadere un occhio sugli oggetti di cui sei circondato: tanti piccoli doni… Chissà cosa penserai, se un fiore in più o un fiore in meno possa alleviare la nostalgia della tua vita passata. Te ne porgo uno, un’orchidea verde. Ero indecisa sul colore da scegliere, volevo regalartene una gialla, ma poi ho pensato: “Gli piacerà? Non sarà troppo colorata?”. Ho scelto così quella verde nella speranza che la tua gioia si rigeneri ogni volta che qualcuno si ricordi semplicemente, senza troppi allestimenti e cerimonie. Ho sostato lì davanti non so per quanto tempo, probabilmente un’ora o poco più. Per quanto intima e silenziosa appariva la mia figura pareva destare meraviglia perché ad un certo punto alcuni ragazzi che passavano di lì per salutarti, facendo un lieve cenno con la testa, mostravano nei miei riguardi un’autentica riverenza pensando, forse, che la mia presenza lì fosse dettata da un qualche grado di parentela. Ho avuto un certo imbarazzo. Ho atteso ancora, pur sapendo che il tempo stava finendo. Mi ero convinta che ti avrei lasciato solo per qualche ora e che sarei ritornata da te non appena mi sarei liberata. Non so, forse un modo come un’altro per esorcizzare il distacco. Sì, il termine giusto è liberata, perché sentivo personalmente di soprassedere all’impegno preso. Ti porgo un bacio e vado via ma dopo pochi metri mi giro e con passo svelto torno indietro per darti ancora un ultimo saluto. 

Naturalmente il mio disappunto non riguardava la persona che di lì a poco avrei incontrato. Se dovessi definirla oggi avrei qualche difficoltà perché un solo aggettivo non mi basterebbe e tanti tutti insieme non gli darebbero il giusto peso. Il mio disappunto, forse, era rivolto in generale ai (buoni) propositi di cui l’uomo è portavoce con l’assoluta certezza di fare cosa gradita, senza fermarsi neanche per un attimo e chiedersi: “cosa sento di fare per questo giorno? E’ così che dovrebbe essere ricordato un uomo, un amico, un fratello?”. Vi lascio con questo interrogativo e proseguo. Incontro la persona citata poc’anzi, un amico caro, con il quale inizio a seguire il programma previsto per la giornata. Mi reco a Villa Bruno per il convegno. Evento promosso in ricordo di o per studiare chi? Secondo interrogativo, proseguo. Il convegno è in corso, sono un po’ afflitta, mi siedo, ma aleggia un’aria finemente cupa. Provo a girarmi intorno, ipotizzando sia a causa del mio umore: la mia solita percezione accelerata. Invece scrutando bene lo spazio intorno a me mi accorgo che nulla di più vero si intravede in quelle facce. Forse interessate ma spesso annoiate, indossano una postura piuttosto forzata pur di mantenere un certa presenza e/o apparenza. Ebbene, non sto qui a soppesare i vari personaggi accorsi, sta di fatto che, probabilmente, un convegno di tale levatura e durata non solo non rappresentava in quel momento la naturalezza dell’uomo che stava decantando ma neanche minimamente si avvicinava all’idea di quella sobrietà connaturata al suo essere. Ciò nulla toglie all’importanza dello studio svolto per l’occasione. Magari, però, nel giorno del suo compleanno e nella sua città natale sarebbe stato più umano ricordarlo con altri intenti, riservando l’excursus accademico per un’altra occasione, in una sede più consona ai tecnicismi del caso e magari con una folla nutrita di giovani studiosi universitari. Che fine può avere un così ardito progetto se resta chiuso in se stesso, nell’interscambio letterario dei soli addetti? Massimì, cosa avrai pensato? Io di certo ho avuto freddo, ma mi sono scaldata non appena ho visto la tua casa, in Via Cavalli Di Bronzo. E’ lì che ho provato ad immaginarti, indaffarato o annoiato nei tuoi giovani pomeriggi. In quell’istante la distanza tra il ricordo di te e la realtà che mi circondava era sconfinata.  Mi sono detta che troppo tempo era passato. Ed in quel momento, nella tua terra, mi sono ritrovata ad ascoltare un’ennesima nota di malinconia, che leggera soffia delicatamente nell’aria. Perché? Qual è il sentimento comune con cui hanno vestito e abbottonato il tuo ricordo? 

Avrei voluto, per il giorno del tuo compleanno, filmare un’aria di festa, avrei voluto rincorrere e riacchiappare l’allegria come solo tu sapevi fare. Correvi, afferandola sempre, anche nei momenti più difficili, anche nei posti più reconditi, inaccessibili agli altri. Invece anch’io, ferma, incapace ho subito senza reagire. Credo, in cuor mio, che quando svanirà questa lenta tarantella di voci, eventi, dicerie, sarà il giorno in cui in qualche modo ci parlerai dicendo: “Uagliù, ma che state facenn’?”. Quello sarà il giorno in cui tutti si ricrederanno.  
Dopo una lunga pausa ritorniamo ad assaggiare qualche altro spunto della seconda parte del convegno di Villa Bruno. Non ho più tempo, ho il treno che mi aspetta, e piena d’esitazioni improvvisamente mi allontano, saluto il mio caro amico con un fare insolito, rapido, spedito, più con lo sguardo che con la forma. Al momento del commiato provo ancora una dolce e amara tristezza per il compimento di una giornata indimenticabile. Corro via, quasi a lasciarmi dietro tutto il resto. Salgo sul treno, questa volta meno felice di terminare il viaggio in compagnia dei già noti e numerosi utenti della circumvesuviana, ma tra una fermata e l’altra vengo assalita dal rimpianto e dal rimorso di non essermi comportata come avrei voluto. In quello stesso istante faccio una promessa: tornerò a  trovarti  e quando lo farò sarà diverso. 
Ciao Massimo, a presto. 
Angela
       

domenica 4 marzo 2012

Per un cartoon da Oscar ci vuole Massimo Troisi

Il film d'animazione della Pixar era in lizza per una statuetta 

Enrico Casarosa: ho visto e rivisto i film di Massimo per carpire i segreti della grande gestualità napoletana

   

Troisi e il protagonista del cartoon PixarCon il corto “La Luna” è stato il primo italiano candidato agli Oscar per un film d’animazione. Quella sera non ha vinto, “sulla luna” però, metaforicamente, ci è andato lo stesso. Enrico Casarosa, quarant’anni, genevose, da dieci vive e lavora, come story artist, negli Stati Uniti, alla Pixar. In un’intervista al Fatto Quotidiano ha raccontato di essersi ispirato a Troisi per alcuni dei personaggi del suo cartoon. «Abbiamo guardato un sacco di film con Massimo Troisi per portare un po’ di quel gesticolare napoletano dentro ai nostri personaggi», ha spiegato. 

Casarosa aveva la necessità di caratterizzare alcuni dei protagonisti del suo corto. “La Luna” è la storia di un bambino che scopre il lavoro che fanno i propri familiari quando, una notte, il padre e il nonno decidono di portarlo in barca con loro. Nell’idea di Casarosa il bambino, come il padre e il nonno, dovevano avere un’espressione, un’aria, un atteggiamento italiano. Come dare quindi ai personaggi di un cartoon simili caratteristiche? Attraverso la gestualità e il modo di parlare, ha pensato Casarosa. 

E chi allora, meglio di altri, poteva rendere sullo schermo simili caratteristiche in modo che i disegnatori e gli sceneggiatori potessero capire quali espressioni e quali movimenti dare ai personaggi del cartoon? Per il disegnatore italiano i cartoonist potevano imparare solo da Massimo. Enrico Casarosa da dieci anni lavora alla Pixar. Negli ultimi anni ha lavorato a lungometraggi di successo come Ratatouille, Cars e Up. Quando, tempo fa, ha proposto al direttore creativo della Pixar John Alan Lasseter di finanziare "La Luna", il produttore cinematografico statunitense non ci ha pensato troppo prima di dire sì, convinto proprio, riporta l’intervista, da quel “sapore” italiano dei personaggi. 

Domenico Andolfo
28 febbraio 2012

FONTE: Corriere del mezzogiorno