Diciannove anni fa, era il 4 giugno 1994, moriva per un attacco di cuore Massimo Troisi. Alfiere napoletano della generazione dei nuovi comici dei Settanta,
quelli che dovevano tanto, tantissimo alla vituperatissima televisione.
Era a Ostia, dalla sorella. Da appena un giorno aveva finito il suo
ultimo film, Il postino, era affaticato e da
poco tempo si era recato negli Stati Uniti per una visita. Niente da
fare, il cuore di Troisi non funzionava. A vent’anni il comico era già
stato in America per la sostituzione di una valvola; il Nuovo Mondo
aveva regalato al napoletanino di San Giorgio a Cremano una nuova vita e
la possibilità di riprendere l’attività teatrale.
Chi non ricorda La smorfia? Il trio cabarettistico formato da Troisi, Enzo Decaro e Lello Arena? Nato come I Saraceni, il gruppettino prima di debuttare in Tv nella storica Non Stop
di Enzo Trapani (1977) era andato in giro per l’Italia raccogliendo
successi nei piccoli teatri e nei cabaret. Le tappe principali del
gruppo, inizialmente diverso per composizione, erano state: teatrino
parrocchiale, garage, teatro, radio e Tv. Una gavetta lunga quasi un
decennio, in un periodo nel quale far ridere era quasi un obbligo.
Non c’è bisogno di dire cosa furono i Settanta. Ricordiamo che a un
certo punto la tivù decise di stare al passo coi tempi e ricordiamo
anche cosa scrisse Lietta Tornabuoni, omaggiando Troisi: quando non
c’era più niente da ridere, ridere era l’unica possibilità rimasta.
Di Troisi si diceva fosse il nuovo Eduardo, vero o
falso che fosse, fu un uomo molto amato, amato dalla gente, dagli
spettatori e dai colleghi. C’era un non so che di misterioso nel suo
modo di fare. La sua tecnica era esclusivamente istinto e interpretazione,
le parole più musica che linguaggio, le espressioni tipiche di chi cede
a una precarietà esistenziale ma col gusto dell’ironia. Si potrebbe
dire di Troisi che fosse in tutto e per tutto un uomo del Sud, ma di un
Sud ironico, delicato, mai ipocrita. A volte incredibilmente riservato.
Un Sud che ridendo dei suoi sketch apriva le porte – e non era la prima
volta – a un umorismo leggero, ingenuo e accidentalmente autolesionista.
Non di rado, Napoli era protagonista delle storielle della Smorfia (sempre là si andava a finire). Ne Il basso
per esempio, con Troisi nei panni del signor Salvatore, un uomo che
chiedeva aiuto non diversamente da tanti altri del Sud. Oppure in Napoli,
con un monologo dedicato a una città con mille problemi: sporca,
senz’acqua, con disoccupazione e mortalità infantile alle stelle. Umorismo tipico di certe espressioni artistiche, da commedia pura,
che si accaniva sui difetti di uomini e cose, strappando più di un
sorriso con un’elencazione di guai, due o tre commenti e pochissima
filosofia.
Troisi era bravo, era bello (non c’è chiosa che non
lo evidenzi), era modesto, non aveva amicizie ai piani alti e aveva le
giuste ambizioni. A un certo punto pensò di scrivere un testo più lungo
del previsto e ne venne fuori la futura sceneggiatura di Ricomincio da tre.
Primo film come attore, sceneggiatore e regista (1981). Protagonista un
giovane napoletano trasferitosi a Firenze, così insicuro da non poter
chiedere molto alla vita, a se stesso e agli altri: sarà costretto ad
accontentarsi di qualche briciola. Troisi temeva l’insuccesso, credeva
di non essere all’altezza come artista cinematografico ma partorirà un
vero gioiellino: il fulcro di una carriera che durerà un altro decennio.
Tra alti e bassi. Nel 1983 esce il quasi gemello Scusate il ritardo, un anno prima è andato in onda un singolare lavoro su Rai3 Morto Troisi, viva Troisi!,
ospite un gruppo di attori (Verdone, Arena, Nichetti, Benigni, Arbore)
che finge di commemorare la morte del protagonista. I suoi ultimi lavori
come regista Le vie del signore sono finite (ambientato nel periodo fascista) e Pensavo fosse amore… invece era un calesse,
sono abbastanza prolissi (c’è chi li ama, ovviamente), azzardo che
Troisi verrà ricordato a vent’anni dalla morte per ben altre opere. Nel
1985, il grande successo di pubblico – non tanto di critica – di Non ci resta che piangere,
film magico realizzato a quattro mani con Benigni (e sceneggiato anche
da Giuseppe Bertolucci). Benigni, che non gli somiglia per niente,
rimarrà fino alla fine uno dei suoi più grandi amici, insieme a Marco
Messeri, Arbore, Verdone e al cantante Pino Daniele.
A metà strada, da ricordare i tre film per la regia di Ettore Scola. Non tra i migliori del regista nato in Campania. Splendor e Che ora è? con Marcello Mastroianni, e Il viaggio di Capitan Fracassa
con Ciccio Ingrassia. Tutti temi diversi, naturalmente: la nostalgia, i
rapporti padre-figlio e le avventure di una compagnia teatrale
itinerante. L’ultima pellicola di Troisi, per la regia di Michael
Redford (Orwell 1984, Il mercante di Venezia) è Il postino con Philippe Noiret nei panni di Pablo Neruda. Il film ottenne cinque nomination all’Oscar
– tra le quali due a Troisi, ormai morto, come attore protagonista e
come sceneggiatore – ma vinse una sola statuetta per la migliore colonna
sonora di Luis Bacalov. Non giudico Il postino un film noioso:
forse un po’ sopravvalutato. Ma commovente. Rimane l’ultima
testimonianza di un grande personaggio del nostro passato. La genuinità di Troisi
entrò anche nel cuore degli Ottanta: nessun giovane a quei tempi riuscì
a sottrarsi al suo giudizio e alla sua candida irriverenza.
A cura di Marco Iacona
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