domenica 16 giugno 2013

La candida irriverenza di Massimo Troisi, quando far ridere era quasi un obbligo

postino
Diciannove anni fa, era il 4 giugno 1994, moriva per un attacco di cuore Massimo Troisi. Alfiere napoletano della generazione dei nuovi comici dei Settanta, quelli che dovevano tanto, tantissimo alla vituperatissima televisione. Era a Ostia, dalla sorella. Da appena un giorno aveva finito il suo ultimo film, Il postino, era affaticato e da poco tempo si era recato negli Stati Uniti per una visita. Niente da fare, il cuore di Troisi non funzionava. A vent’anni il comico era già stato in America per la sostituzione di una valvola; il Nuovo Mondo aveva regalato al napoletanino di San Giorgio a Cremano una nuova vita e la possibilità di riprendere l’attività teatrale.

Chi non ricorda La smorfia? Il trio cabarettistico formato da Troisi, Enzo Decaro e Lello Arena? Nato come I Saraceni, il gruppettino prima di debuttare in Tv nella storica Non Stop di Enzo Trapani (1977) era andato in giro per l’Italia raccogliendo successi nei piccoli teatri e nei cabaret. Le tappe principali del gruppo, inizialmente diverso per composizione, erano state: teatrino parrocchiale, garage, teatro, radio e Tv. Una gavetta lunga quasi un decennio, in un periodo nel quale far ridere era quasi un obbligo. Non c’è bisogno di dire cosa furono i Settanta. Ricordiamo che a un certo punto la tivù decise di stare al passo coi tempi e ricordiamo anche cosa scrisse Lietta Tornabuoni, omaggiando Troisi: quando non c’era più niente da ridere, ridere era l’unica possibilità rimasta.

Di Troisi si diceva fosse il nuovo Eduardo, vero o falso che fosse, fu un uomo molto amato, amato dalla gente, dagli spettatori e dai colleghi. C’era un non so che di misterioso nel suo modo di fare. La sua tecnica era esclusivamente istinto e interpretazione, le parole più musica che linguaggio, le espressioni tipiche di chi cede a una precarietà esistenziale ma col gusto dell’ironia. Si potrebbe dire di Troisi che fosse in tutto e per tutto un uomo del Sud, ma di un Sud ironico, delicato, mai ipocrita. A volte incredibilmente riservato. Un Sud che ridendo dei suoi sketch apriva le porte – e non era la prima volta – a un umorismo leggero, ingenuo e accidentalmente autolesionista. Non di rado, Napoli era protagonista delle storielle della Smorfia (sempre là si andava a finire). Ne Il basso per esempio, con Troisi nei panni del signor Salvatore, un uomo che chiedeva aiuto non diversamente da tanti altri del Sud. Oppure in Napoli, con un monologo dedicato a una città con mille problemi: sporca, senz’acqua, con disoccupazione e mortalità infantile alle stelle. Umorismo tipico di certe espressioni artistiche, da commedia pura, che si accaniva sui difetti di uomini e cose, strappando più di un sorriso con un’elencazione di guai, due o tre commenti e pochissima filosofia.

Troisi era bravo, era bello (non c’è chiosa che non lo evidenzi), era modesto, non aveva amicizie ai piani alti e aveva le giuste ambizioni. A un certo punto pensò di scrivere un testo più lungo del previsto e ne venne fuori la futura sceneggiatura di Ricomincio da tre. Primo film come attore, sceneggiatore e regista (1981). Protagonista un giovane napoletano trasferitosi a Firenze, così insicuro da non poter chiedere molto alla vita, a se stesso e agli altri: sarà costretto ad accontentarsi di qualche briciola. Troisi temeva l’insuccesso, credeva di non essere all’altezza come artista cinematografico ma partorirà un vero gioiellino: il fulcro di una carriera che durerà un altro decennio. Tra alti e bassi. Nel 1983 esce il quasi gemello Scusate il ritardo, un anno prima è andato in onda un singolare lavoro su Rai3 Morto Troisi, viva Troisi!, ospite un gruppo di attori (Verdone, Arena, Nichetti, Benigni, Arbore) che finge di commemorare la morte del protagonista. I suoi ultimi lavori come regista Le vie del signore sono finite (ambientato nel periodo fascista) e Pensavo fosse amore… invece era un calesse, sono abbastanza prolissi (c’è chi li ama, ovviamente), azzardo che Troisi verrà ricordato a vent’anni dalla morte per ben altre opere. Nel 1985, il grande successo di pubblico – non tanto di critica – di Non ci resta che piangere, film magico realizzato a quattro mani con Benigni (e sceneggiato anche da Giuseppe Bertolucci). Benigni, che non gli somiglia per niente, rimarrà fino alla fine uno dei suoi più grandi amici, insieme a Marco Messeri, Arbore, Verdone e al cantante Pino Daniele.

A metà strada, da ricordare i tre film per la regia di Ettore Scola. Non tra i migliori del regista nato in Campania. Splendor e Che ora è? con Marcello Mastroianni, e Il viaggio di Capitan Fracassa con Ciccio Ingrassia. Tutti temi diversi, naturalmente: la nostalgia, i rapporti padre-figlio e le avventure di una compagnia teatrale itinerante. L’ultima pellicola di Troisi, per la regia di Michael Redford (Orwell 1984, Il mercante di Venezia) è Il postino con Philippe Noiret nei panni di Pablo Neruda. Il film ottenne cinque nomination all’Oscar – tra le quali due a Troisi, ormai morto, come attore protagonista e come sceneggiatore – ma vinse una sola statuetta per la migliore colonna sonora di Luis Bacalov. Non giudico Il postino un film noioso: forse un po’ sopravvalutato. Ma commovente. Rimane l’ultima testimonianza di un grande personaggio del nostro passato. La genuinità di Troisi entrò anche nel cuore degli Ottanta: nessun giovane a quei tempi riuscì a sottrarsi al suo giudizio e alla sua candida irriverenza.
A cura di Marco Iacona 
 

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