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sabato 2 aprile 2022

"Scusate il ritardo" di Massimo Troisi in streaming: uno dei tanti film capolavoro non pervenuti

Tra i film di Massimo Troisi spicca l'assenza di "Scusate il ritardo" in streaming, su qualsiasi piattaforma lo si cerchi. È solo uno dei tanti titoli capolavoro assenti e non è soltanto una questione di diritti d'autore. Uno dei più grandi successi di inizio anni Ottanta con coprotagonisti Giuliana De Sio e Lello Arena, acquistabile certamente in dvd (e non in bluray, ma questa è un'altra questione che affronteremo in separata sede) ma non reperibile altrove in rete, legalmente si intende. Tra l'altro proprio nei mesi in cui gli introiti dello streaming hanno messo la freccia e sorpassato quelli dei titoli fisici.

Inutile cercare il film di Massimo Troisi su Netflix, su Disney+, dove pure campeggia "Non ci resta che piangere", men che meno su Amazon Prime Video. Una questione che non può lasciare indifferenti appassionati troisiani e non, anche nell'ottica di tramandare film preziosi alle nuove generazioni. Affinché "Scusate il ritardo" continui ad esistere, per estremizzare il concetto, è un qualcosa al quale occorre porre rimedio. Invece per ora resta l'ennesimo atto di abbandono di un serio lavoro di salvaguardia dell'opera del Nostro.

C'è da dire che Massimo Troisi è in buona, anzi ottima compagnia, tra gli autori di opere importanti e irreperibili in streaming: citiamo a questo proposito "La dolce vita" di Federico Fellini, "Il piccolo diavolo" di Roberto Benigni e "Un borghese piccolo piccolo" di Mario Monicelli. Ma l'elenco potrebbe essere molto più lungo.

Quali possono essere i motivi di tali mancanze? In primis c'è ovviamente una questione di diritti d'autore, di accordi mancati o di indisponibilità a concederli. Ed ecco che paradossalmente nell'era di internet è meno facile trovare "Scusate il ritardo" di Massimo Troisi rispetto agli anni delle videocassette. Si privilegiano i contenuti originali a discapito di ciò che è datato e viene reso meno affascinante.

Allo stesso modo a scegliere i contenuti che finiscono sulle piattaforme sono freddi algoritmi che prendono in considerazione gli altrettanto freddi numeri che fanno più facilmente i prodotti nuovi, magari celebri perché diventati virali. Sono questi che spostano gli abbonati, in una spirale che mette seriamente a rischio i capolavori di un tempo.

venerdì 31 luglio 2015

Massimo Troisi-tour sulla spiaggia di "Scusate il ritardo" (VIDEO)

spiaggia scusate il ritardo massimo troisi giuliana de sioDal nostro raduno dello scorso 24 giugno ecco a voi il video della nostra spedizione sulla spiaggia di "Scusate il ritardo".

Grazie a tutti quelli che hanno partecipato e arrivederci al prossimo raduno.

Cristiano




 
                                 

martedì 21 luglio 2015

Le foto del Massimo-tour sulla spiaggia di "Scusate il ritardo", dal raduno del 24 giugno 2015

Insieme abbiamo piantato un'altra splendida bandierina sull'atlante delle location dei film di Massimo. Camminare su quella spiaggia è stata una grande emozione per tutti. Ecco le foto che immortalano quei momenti, in attesa del video. Mi mancate, ma siete fantastici quando guardiamo insieme-a distanza i suoi film sul nostro gruppo Facebook. 
A prestissimo,

Cristiano

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domenica 18 gennaio 2015

Lello Arena e Giuliana De Sio, protagonisti di "Scusate il ritardo", ricordano Massimo Troisi

"Vado in sale e attraverso piazze che hanno il nome di Massimo, ho vinto un premio che porta il suo nome... Questo ha un suo piacere, ma sono cose di cui avrei volentieri fatto a meno... Quando Massimo è mancato pensavo di dover avere la funzione di alimentare il suo ricordo, ma lui è sempre stato il più bravo. Certo, mi sono dato da fare perché il nostro materiale fosse a disposizione di chiunque. Ma Massimo manca, è una mancanza lancinante, anche se la sua presenza in chi lo ama è fonte di ispirazione ancora presente" confida Lello Arena che, a proposito dell'esperienza di comicità avuta insieme, ammette: «E' stata messa un'asticella in un punto molto alto, spesso difficile da saltare anche per noi protagonisti di quel progetto. Quell'asticella sta lì anche per me: a volte riesco a saltarla, a volte mi faccio male, ma sono felice che sia stata messa anche da me. C'era quella poesia, nella comicità, che la rendeva insuperabile. Una buona pietra di paragone: e sono contento di aver partecipato a quel progetto. Poi, la Smorfia era un progetto archiviato già quando Massimo era vivo e forse ha avuto vita breve perché ha detto quello che doveva dire. Un rammarico dato dalla mancanza di Massimo è il cercare di capire quali altre frontiere ci fossero ancora da esplorare. Da soli è più complicato. E meno divertente.

Lello Arena


 
Il segreto della riuscita di un prodotto, sia per il piccolo che il grande schermo, risiede proprio nella dinamica delle relazioni che, grazie al regista, si instaurano tra gli interpreti. Non basta il talento di un singolo. Il film è un gioco di squadra e gli attori lo sanno. Tutto ciò l'ho imparato dai grandi attori come Vittorio Gassman e Massimo Troisi con i quali ho lavorato. Loro si sono sempre posti verso gli altri colleghi con grande umiltà e senza protagonismi pericolosi. È questo il modo di pensare di tutti gli artisti internazionali, purtroppo non sempre messo in pratica da quelli italiani.
 
Giuliana De Sio
Tratto da Il tempo
   

giovedì 9 ottobre 2014

Giuliana De Sio ospite del Napoli Film Festival: "Massimo Troisi era un comico elegante e colto"

"Per me fu un anno magnifico, arrivavo da tanti sceneggiati televisivi belli e di qualità e nel 1983 venni scelta per tre film importanti. Sciopèn di Luciano Odorisio (che vinse a Venezia come miglior opera prima) con Michele Placido, e poi, a distanza di pochi giorni, arrivarono i film che mi hanno particolarmente segnata Io, Chiara e lo Scuro con Francesco Nuti, diretto da Maurizio Ponzi e Scusate il Ritardo di Massimo Troisi. Ebbero tutti e tre grande successo di critica e di pubblico e io vinsi parecchi premi".

Com'è stata l'esperienza con questi due giovani attori/autori?
"Con Nuti abbiamo fatto cose che, viste oggi, restano per sempre. Allora le giudicavo come un trampolino verso un cinema più elevato; un salto che poi non c'è stato. Con Francesco c'era sempre un bel clima, era una personalità atipica nel mondo del cinema, con la sua comicità molto amara ma sentimentale. Io mi ci trovavo bene, proprio perché parlava d'amore".

Contemporaneamente arriva Massimo Troisi.
"Massimo era un ragazzo della nostra età che mi faceva molto ridere con la Smorfia. Dopo il primo film, sapevo che stava preparando il secondo e che l'attrice di questo film sarebbe stata baciata dalla fortuna. Volle me, perché era un fan di un mio sceneggiato tv, strappandomi al suo collega amico Lello Arena che mi voleva per "No Grazie, il caffè mi rende nervoso". Il mio agente mi propose entrambe le sceneggiature e io decisi di fare il film di Massimo".

Com'è il tuo ricordo di Massimo Troisi?
"Non ho più parole per raccontare Massimo, ho un ricordo nitido e triste. Aveva un cuore che batteva rumorosamente, per una piccola macchina che lo assisteva nel battito... Massimo era un comico elegante e colto nell'inconscio, cultura che non era arrivata con la lettura di tanti libri ma ce l'aveva dentro, innata. Non l'ho mai sentito dire una banalità. Aveva una comicità senza tempo, sarebbe stato bello fare un altro film con lui".

Fu un film difficile da realizzare per te.
"Sì, il mio compagno Elio Petri era gravemente ammalato. Io dissi a Massimo che, per questo motivo, non sarei stata troppo lucida durante le riprese e che con me si sarebbe preso una rogna; lui mi disse di non preoccuparmi. Poi accadde quello che poteva accadere ed Elio morì proprio durante le riprese. Feci il film con il pianto in gola per la mia situazione".

Hai fatto tanto cinema con altri grandi registi italiani.
"Certo, con Monicelli ho fatto due film: "Speriamo che sia Femmina" e "I Picari". Per i Picari mi disse che aveva avuto un'idea per il mio personaggio e mi chiese se me la sentivo: ero una schiava pagata a peso e dunque comprata nuda per spender meno, e lui mi propose di recitare tutto il film così, senza vestiti. Gli dissi "ci penso" ma poi non me la sentii anche se riconosco che era una grandissima idea. Per me Mario era nella mitologia cinematografica e spesso ci scambiavano per padre e figlia, visto che la gente riconosceva me e chiedeva se lui fosse mio padre. Una volta lui rispose "Sì, è mia figlia" e io in cuore fui molto felice, è il mio eroe. Adorava la vita e, a 96 anni, non potendo fare più quello che gli piaceva, ha deciso con coraggio di smettere di vivere".

Il teatro, la tv, il cinema. Sei sempre attivissima nel tuo lavoro.
"Il teatro per me è una garanzia, mi riconosce sempre un valore. In questa stagione saremo a Napoli, al Bellini, a fine ottobre con "Notturno di Donna con Ospiti" di Annibale Ruccello. Per la tv continuo con la fiction di oggi, ho spesso personaggi interessanti anche se ho nel cuore gli sceneggiati di qualità di una volta. Il cinema... il cinema di una volta mi manca moltissimo...".

Stefano Amadio - CinemaItaliano.info
 

giovedì 22 agosto 2013

Massimo Troisi, una vita da orsacchiotto

Massimo Troisi Roberto Benigni Morto Troisi Viva Troisi
In questo tramonto della seconda repubblica, capita di chiedersi quali ispirazioni ne caverebbe Massimo Troisi, morto ai suoi primi albori. Troisi non era un satirico in senso stretto: era un comico, nell’accezione più malinconica e atemporale del termine. Ma a differenza di molti travet della satira, sapeva cogliere con sovrana leggerezza i tic apparentemente più labili e più sotterraneamente radicati di una mentalità e di un’epoca. Soprattutto, con incantevole noncuranza, e con un’ironia sottilmente virata in antifrasi, sapeva far riaffiorare al di là di questi tic la ragionevolezza di un senso comune troppo spesso minacciato dalle disarmanti fatalità della storia italiana. Non era un grande regista; ed era un primo attore strano, che non s’imponeva ma piuttosto s’insinuava. Non stupisce dunque che le sue minuziose diatribe, insieme stenografiche e prolisse, prive di climax e di icasticità, abbiano sempre lasciato una parte del pubblico fredda o infastidita. Ma chi l’ha amato rimpiange proprio la stranezza di questo reticente e cincischiante fenomeno attoriale: un fenomeno che non ha eredi, e che malgrado la napoletanità conta forse molti nonni ma nessun vero padre.

Come si fa, sulla carta, a dare un’idea di quell’oratoria troisiana che è esilarante perché estenuante, delusivamente sfumata, antieloquente? Rivediamo Troisi nell’82, in tuta da attrezzista, che davanti a una telecamera manda un accorato messaggio a Pertini. Parlando in tivù, il Presidente ha puntato il dito contro di lui, contro suo padre e suo fratello, che assistevano alla trasmissione in salotto, e ha chiesto minaccioso: “Chi ha preso i soldi del Belice?”. I familiari si sono guardati a vicenda, perché il gesto era inequivocabile: Pertini accusava proprio loro (se avesse voluto alludere ai ministri e ai potenti, il dito l’avrebbe puntato alle sue spalle, non verso quel povero salotto!). Alla fine l’attrezzista ha domandato al padre se non avesse davvero preso quei soldi, e l’ha ammonito, nel caso, a cacciarli fuori, per non fare una “figur ‘e niente” col Presidente. Ma no, c’è stato uno sbaglio: Pertini sappia che deve cercare in un’altra casa, che lì “nemmeno di passaggio” si son visti, i soldi del Belice. Questo ricordo si porta dietro quello di una satira più lieve. È il maggio ‘87, il Napoli ha appena vinto lo scudetto, e Gianni Minà (quel Minà che secondo Troisi non invita bambini nelle sue trasmissioni perché a loro non può chiedere “cosa facevano negli anni Sessanta”) va a intervistare l’attore-regista di San Giorgio a Cremano. Troisi finge di non aver ancora saputo la notizia, e col suo tipico tono da alunno impreparato si esibisce in una parodia della retorica giornalistica: “L’hanno già detto ‘a parte Maradona non dimentichiamo questo meraviglioso pubblico che è stato un dodicesimo giocatore in campo’? L’hanno già detto ‘Bianchi un allenatore modesto ma capace’? L’hanno già detto ‘sì va bene festeggiamo ma non dimentichiamo i mille problemi che da secoli si affacciano su Napoli’?”. Ovviamente tutto l’ovvio è stato detto, e Troisi si limita allora a una pubblicità progresso, invitando a esultare senza dimenticare acqua e gas aperti, e spiegando perché è rischioso, con quel suo tono che rende irresistibili i pleonasmi. Poi, davanti ai tifosi settentrionali che parlano dei napoletani “campioni del Nordafrica”, conclude che è meglio essere campioni del Nordafrica che fare striscioni da Sudafrica. Ma subito la voce gli scivola via da questa battuta troppo sonante, troppo “benignesca”… Perché la comicità di Troisi sta nei queruli balbettii, nelle afasie, nelle macchinose contorsioni verbali che provocano un riso simile a un formicolio crescente – riso che non dipende quasi mai da un singolo gesto o da una singola battuta, ma dal ritmo di quella cantilena piagnucolosa, esasperata, stridula, che gli esce a spizzichi dalle labbra sottili piegate in una smorfia di disgusto, e che per restituire le minime vibrazioni di un atteggiamento psicologico s’aiuta col gesticolare sconfortato delle mani, col corpo paperescamente raccolto tra la testa sporgente e le gambe piegate in dentro a difesa. A raccontarle, sembra che di queste cantilene non rimanga niente: e infatti i veri appassionati degli sketch di Troisi non li citano ma li mimano da cima a fondo, imitando perfino la vocetta fessa.

Massimo Troisi Francesca Neri Pensavo fosse amore invece era un calesseTuttavia, se il suo eloquio non si può “raccontare”, se ne può almeno analizzare qualche frammento, e tentarne una definizione critica. Per capire come questo comico introspettivo riesca a cogliere i più impalpabili tra i meccanismi che governano le nostre scelte quotidiane, partiamo da Non ci resta che piangere, il film dell’84 in cui Troisi e Benigni si trovano catapultati nel mondo di fine Quattrocento. Benigni si adatta presto; ma Troisi non regge a quella vita violenta e puzzolente. Così una sera, in casa del mitico Vitellozzo, convince l’amico a tentare un esperimento. Forse, dice, il viaggio nel tempo è solo un fatto psicologico. Basta fingere, appena svegli, che non sia successo niente. Ci si alza, si chiacchiera del tran tran di tutti i giorni, si apre il portone, ed ecco che ci si ritroverà nel civile Novecento. Così la mattina, davanti al portone chiuso, i due si concentrano. Benigni imposta la voce, e snocciola frasi zeppe di oggetti novecenteschi: “Con ‘sto pneumatico che s’è sgonfiato… senza frigorifero… si va in banca, se non si piglia la scossa con la corrente elettrica si citofona… ti faccio una telefonata e si esce con l’autobus!”. Poi Troisi apre il portone e… niente: sulla strada c’è sempre la Toscana di Savonarola. Allora si arrabbia con Benigni, perché ha esagerato con tutti quei nomi moderni: così è chiaro che “se n’accorge”. Se n’accorge? Ma chi? “Chi c’ha mandato qua… o tiempo, Dio… è sfacciata accussì”. Ecco: Troisi è tutto qua, in questo “è sfacciata accussì”, in questa rabdomantica capacità di render perspicue le piccole, imbarazzanti, informi superstizioni dell’italiano qualunque, che per lui non è un pagliaccio né una carogna, ma un eterno adolescente attaccato ad abitudini familiari da cui gli deriva, insieme con una pigrizia brancatiana, anche una brancatiana diffidenza per ogni grandeur. Davanti al suo umorismo delicato, Benigni si riduce a rozza “spalla”. Il napoletano è agli antipodi del toscano: non è un clown che spicca sullo sfondo di una grigia realtà comune, ma un anti-clown che restaura il senso comune inquinato da una realtà assurda, parossistica, tronfia.

A volte questa realtà si presenta coi tratti solenni di chi si considera l’incarnazione della Cultura o della Fede: e Troisi smonta una tale solennità riportandola al registro modesto della chiacchiera. “Sa che cosa dice Cooper?” domanda intimidatorio, nel film d’esordio Ricomincio da tre (1981), il professore che Gaetano-Troisi sorprende in vestaglia in casa della zia, e che tenta di dare un supporto teorico al suo rapporto irregolare con la signora. “Cioè, Cooper ha detto tante cose… mica una” abbozza Troisi. “Ricordati che devi morire” gli ripete un predicatore quattrocentesco in Non ci resta che piangere. “Mo’ me lo segno” ribatte lui con voce tremolante.
Ma in genere, l’assurdità del reale ha il volto di personaggi abitati da un’idea fissa, a cui Troisi oppone la fioca voce della ragione. Le spalle delle gag più riuscite sono dei maniaci o dei fanatici. Ad esempio, in Ricomincio da tre è indimenticabile la sequenza in cui l’autostoppista Gaetano viene caricato da Michele Mirabella, un folle che ha deciso di uccidersi proprio andandosi a schiantare con la macchina, per far sembrare la morte un incidente perfino agli occhi divini, e per non scontare quindi il peccato mortale del suicidio. Alla fine Gaetano, con parole simili a quelle di Non ci resta che piangere, lo convince che lassù “loro sempre se n’accorgono” se uno fa peccato, e riesce ad accompagnarlo a un centro di igiene mentale. Ma là trova un altro folle, Marco Messeri, che gl’impone uno stridulo monologo sulla sua invidia per Agnelli e Alain Delon. Nello stesso film, anche Lello Arena e l’entusiasta predicatore americano che vuol risolvere tutto con la “Parola” – per non parlare di Robertino, ometto tiranneggiato dalla madre bigotta – sono in fondo degli ossessivi. Ma quasi dappertutto gli alter ego di Troisi devono fronteggiare dei personaggi secondari rigidi, impermeabili al dialogo, a volte “integrati” proprio perché folli. L’elenco è lungo: si va dal primo Arena fino all’Angelo Orlando di Pensavo fosse amore invece era un calesse (1991). Ma l’attore più portato per ruoli del genere è Messeri. In Pensavo fosse amore questo toscano tarchiato, dall’occhio vitreo, si chiama Enea, e si mette con la donna di Tommaso-Troisi. Tutti lo considerano bellissimo. Solo Tommaso sembra accorgersi di ciò che è ovvio: cioè del fatto che Messeri è bruttarello ed è pure afflitto da un nome ridicolo. Tipica, qui, anche l’opposizione tra il protagonista, che nei film di Troisi è sempre pigro, sedentario, eduardianamente stanco, e il rivale pratico, dinamico, che sembra saper fare qualunque cosa (viaggia in Oriente, arbitra gare tra barbieri, ipnotizza galline…). Come i battibecchi con le “spalle”, anche la pigrizia di questi alter ego, la loro inadattabilità a lavoro e sport, servono a smascherare il grottesco della società in cui vivono, in particolare la mania dell’efficienza, lo stolido attivismo, l’agitazione inutile o sopra le righe: sono, insomma, un antidoto contro i fanatici.

Massimo Troisi Diego Armando Maradona
Questa contrapposizione assume un’evidenza didascalica in Le vie del Signore sono finite (1987), che mette in scena il fanatismo per eccellenza: il fascismo. È qui che davanti a una donna entusiasta dei puntuali treni di regime, il protagonista osserva che se era questo il problema bastava nominare Mussolini capostazione. Ed è qui che Camillo-Troisi, avendo portato due pozioni di sua invenzione, contro la calvizie e contro il dolore, a un gelido burocrate, solo mentre ne vanta la bontà si accorge del ritratto del calvo Duce che campeggia sulla scrivania dell’interlocutore, e apprende che secondo quel Duce “la via della salvezza è segnata dal dolore”. Così, con un dietrofront da italiano abituato a piegarsi inerme al potere, trasforma la réclame delle due boccette in una contrita constatazione della loro inutilità. Perché Camillo non è un oppositore: vuol solo essere lasciato in pace. E tuttavia, come certe figure di Brancati, ha una passiva ironia che il fascismo non perdona. Infatti, mentre tutti si integrano, lui è picchiato e arrestato.

A un mondo folle e burattinesco, gonfio di parole roboanti, la comicità di Troisi non oppone battute altrettanto roboanti, pose altrettanto burattinesche e stilizzate: è invece l’ultima, gelatinosa, sommessa difesa dell’uomo che vuol restare integro. Perché qui sta la sua singolarità: mentre i personaggi con cui viene a contrasto diventano maschere sclerotiche, Troisi, pur essendo un comico puro e per giunta napoletano, non è mai una maschera, ma resta un uomo intero. Non ha bisogno delle stilizzazioni che gli attori-registi suoi coetanei usano per distinguersi: delle idiosincrasie di Moretti, o della clownerie di Benigni, o delle macchiette di Verdone (sapientemente sfruttate nell’82 in Morto Troisi, viva Troisi, finto servizio tv sulla propria morte dove i veri “morti” sono i colleghi che lo ricordano, cristallizzati nei loro tic).
Senza questa integrità, che gli permette di adattarsi alle nuances più sottili della psicologia e delle intermittenze del cuore, l’attore Troisi non potrebbe reggere i duetti agrodolci ingaggiati con Mastroianni in Che ora è?, un elegiaco film di Scola su padri e figli. Né potrebbe, nei suoi film, utilizzare le colte sceneggiature di Anna Pavignano, e mantenere come leitmotiv le raffinate analisi del rapporto di coppia. Sono queste analisi ad allontanare i film di Troisi dalla commedia all’italiana, e a impregnarli di quella malinconia umoristica che con mezzi diversi ottiene il Woody Allen meno stilizzato. Chi ama Troisi non riesce a scindere le gag più esilaranti dalle sue descrizioni delle fasi aurorali e poi subito autunnali dell’amore. Verso le donne l’attore avanza sempre di sbieco, con un sorriso storto e timido, mentre si ravvia i capelli o si sistema i vestiti con un gesto cauto e quasi furtivo, già pronto a tirarsi indietro. Ma non ce n’è ragione. Perché Troisi, che non ha una faccia di per sé comica, cioè una di quelle facce che salvo eccezioni (vedi ancora Allen) condannano a ruoli grotteschi e impediscono ogni introspezione, è quasi un bello: e gli basta poco per diventare un seduttore – anche se un seduttore pigro, incerto, antivirile.

Tra i tanti episodi amorosi ci vengono subito in mente, in Ricomincio da tre, i dialoghi sul tradimento tra Gaetano e Marta. L’infedele Marta, maniaca dell’emancipazione, sostiene che “quando c’è l’amore c’è tutto”; ma Gaetano la corregge: “No, chella è ‘a salute”. E chi non ricorda la loro discussione sul nome da dare al figlio? Lui sostiene che “Mas-si-mi-lia-no” è troppo lungo: il tempo di scandirne le sillabe, e il pargolo che si vorrebbe richiamare all’ordine sarà già andato a combinar disastri chissà dove. Meglio il breve “Ugo”: il bambino verrà su “più educato”. Gli alter ego di Troisi sono così presi dai tira e molla sentimentali, che a volte l’innamoramento agisce sul fisico. Il protagonista di Le vie del Signore sono finite vive in carrozzella per attirare le attenzioni della donna che l’ha lasciato: ennesima versione del Troisi indolente, ipocondriaco, seduttivo, e della sua “comicità psicosomatica”. Ma l’innamoramento può anche far scordare l’ipocondria. In Scusate il ritardo, Vincenzo è a letto con la febbre. Gli sanguina il naso, e teme sia un’emorragia, sebbene la sua mammona partenopea gli ripeta che è un raffreddore. Ma quando entra a trovarlo la bella Giuliana De Sio, ribalta le carte: la mamma, che apprensiva!, ha paura di un’emorragia, mentre lui sa bene che gli si è solo rotta “‘na venuzza dint ‘o naso”… A volte, come in quel manualetto sulla coppia che è Pensavo fosse amore, i discorsi teorici brancatianamente prevalgono sulla vita sentimentale vissuta. Ma le scene più frequenti, nella fenomenologia troisiana dell’eros, sono quelle in cui, per riempire gli imbarazzanti silenzi davanti a una donna, il seduttore diventa logorroico. Nei film di Troisi c’è sempre una ragazza che assiste con un sorriso, non si sa se stordito o ipnotizzato, ai suoi ragionamenti sfilacciati e contorti. In Scusate il ritardo, per sedurre la De Sio, Vincenzo s’imbarca in un racconto del tutto fuori luogo sulla sua infanzia da “terzo della classe”, finché la poveretta (come l’amazzone di Non ci resta che piangere) sviene per l’estenuazione.
Massimo Troisi Pensavo fosse amore invece era un calesse
È insomma da un impulso sentimentale che nascono i più ingegnosi e futili discorsi di Troisi sul mondo e sulla vita, le sue invenzioni teoriche fatte di nulla. E queste invenzioni, lo si è detto, non consistono tanto di singole battute, bensì di “situazioni verbali”. Quasi procedendo a tentoni, il comico si fa prendere la mano da una tesi o da un paragone, e li esagera arzigogolando. Oppure afferra un’iperbole, o una parabola, e le porta sofisticamente all’assurdo calandole nella vita quotidiana. Se parla della Napoli stereotipa di sole, pizze e mandolini, descrive nei dettagli cosa accade dove tutti anziché lavorare suonano uno strumento, mangiano mozzarella o si abbronzano. Nel primo film, quando Gaetano non ne può più di sentire il religioso Frankie che cita i dialoghi tra San Francesco e gli uccelli, gli contrappone questa immagine del Santo: “Steva continuamente dint’ agli orecchi de cchiste povere bestie (…) secondo me gli uccelli non lo sopportavano cchiù a San Francesco, cioè appena lo vedevano arrivà” se n’andavano “‘n copp’ agli alberi”. Morale: “Per colpa di San Francesco è nata la migrazione degli uccelli”.
Con questa tecnica della dilatazione puntigliosa, Troisi sa ipnotizzare il pubblico per lunghi interminabili minuti mentre filosofeggia sui modi diversi con cui americani e italiani aprono il frigo, o descrive la posa che hanno i carabinieri guardando la tivù, o ancora mentre spiega che non legge libri perché la gara è persa in partenza, dato che lui è uno solo a leggere contro milioni di persone che scrivono. Con la stessa cocciuta cavillosità tenta d’insegnare la briscola a Leonardo da Vinci (Non ci resta che piangere), e di dissuadere un rivale, innamorato come lui di una donna minuta, spiegandogli che le donne minute si rattrappiscono fino a sparire (Le vie del Signore sono finite). E quanto a cavilli, come dimenticare la casistica sui miracoli che apre Ricomincio di tre? Troisi si lamenta del padre, rimasto senza una mano, che prega la Madonna di fargliela ricrescere. Gli sembra assurdo, perché i miracoli mica fanno spuntare arti mancanti. Toccano gente che non ci vedeva e ha riacquistato la vista, ma “i uocchie i tteneva”, gente che “nun camminava e po’ ha camminato, ma i ccosce i tteneva”. Al che Arena risponde che ci sono “miracoli facili” e “miracoli difficili”: ed è continuando a dibattere su questa distinzione che spariscono dall’obiettivo.

Troisi ha reso comica la puntigliosità, la chiosa che spacca il capello in quattro. È napoletanissimo, coi suoi tempi comici perfetti, eppure dentro questi tempi infila tutto ciò che, in modo assai poco napoletano, inceppa l’eloquenza e impedisce l’icasticità dell’espressione. “Prim’ e tutto…”: così iniziano, col gesto di chi mette le mani avanti, i monologhi con cui si difende dalle intimidatorie certezze degli interlocutori, allineando faticosamente una parola dopo l’altra e riportando la disputa sul terreno di un sapere casalingo. Anche le sue battute più famose sono un’ingegnosa difesa della più comune e tenera quotidianità. Quando Arena lo mette davanti alla scelta tra il giorno da leone e i cento da pecora, Troisi chiede se non sia possibile passarne cinquanta da orsacchiotto, così non si fa “‘a figur’ ‘e merd’ daa pecora, e nemmeno ‘o leone ca però campa nu jorn’”. Era, questa dell’orsacchiotto, la sua vocazione. E avremmo voluto che i suoi cinquanta giorni durassero molto più dei quarant’anni a cui il cuore lo ha fermato.

Matteo Marchesini
Il Foglio, 1 settembre 2012

domenica 11 dicembre 2011

Massimo Troisi e Izet Sarajlić: scusate l'accostamento

Quei due abbracciati sulla riva del Reno
potevamo essere anche tu ed io.

Ma noi non passeggeremo mai più
su nessuna riva abbracciati.

Vieni, passeggiamo almeno in questa poesia.

 
Izet Sarajlić