In questo tramonto della seconda repubblica, capita di chiedersi
quali ispirazioni ne caverebbe Massimo Troisi, morto ai suoi primi
albori. Troisi non era un satirico in senso stretto: era un comico,
nell’accezione più malinconica e atemporale del termine. Ma a differenza
di molti travet della satira, sapeva cogliere con sovrana leggerezza i
tic apparentemente più labili e più sotterraneamente radicati di una
mentalità e di un’epoca. Soprattutto, con incantevole noncuranza, e con
un’ironia sottilmente virata in antifrasi, sapeva far riaffiorare al di
là di questi tic la ragionevolezza di un senso comune troppo spesso
minacciato dalle disarmanti fatalità della storia italiana. Non era un
grande regista; ed era un primo attore strano, che non s’imponeva ma
piuttosto s’insinuava. Non stupisce dunque che le sue minuziose
diatribe, insieme stenografiche e prolisse, prive di climax e di
icasticità, abbiano sempre lasciato una parte del pubblico fredda o
infastidita. Ma chi l’ha amato rimpiange proprio la stranezza di questo
reticente e cincischiante fenomeno attoriale: un fenomeno che non ha
eredi, e che malgrado la napoletanità conta forse molti nonni ma nessun
vero padre.
Come si fa, sulla carta, a dare un’idea di quell’oratoria troisiana
che è esilarante perché estenuante, delusivamente sfumata,
antieloquente? Rivediamo Troisi nell’82, in tuta da attrezzista, che
davanti a una telecamera manda un accorato messaggio a Pertini. Parlando
in tivù, il Presidente ha puntato il dito contro di lui, contro suo
padre e suo fratello, che assistevano alla trasmissione in salotto, e ha
chiesto minaccioso: “Chi ha preso i soldi del Belice?”. I familiari si
sono guardati a vicenda, perché il gesto era inequivocabile: Pertini
accusava proprio loro (se avesse voluto alludere ai ministri e ai
potenti, il dito l’avrebbe puntato alle sue spalle, non verso quel
povero salotto!). Alla fine l’attrezzista ha domandato al padre se non
avesse davvero preso quei soldi, e l’ha ammonito, nel caso, a cacciarli
fuori, per non fare una “figur ‘e niente” col Presidente. Ma no, c’è
stato uno sbaglio: Pertini sappia che deve cercare in un’altra casa, che
lì “nemmeno di passaggio” si son visti, i soldi del Belice. Questo
ricordo si porta dietro quello di una satira più lieve. È il maggio ‘87,
il Napoli ha appena vinto lo scudetto, e Gianni Minà (quel Minà che
secondo Troisi non invita bambini nelle sue trasmissioni perché a loro
non può chiedere “cosa facevano negli anni Sessanta”) va a intervistare
l’attore-regista di San Giorgio a Cremano. Troisi finge di non aver
ancora saputo la notizia, e col suo tipico tono da alunno impreparato si
esibisce in una parodia della retorica giornalistica: “L’hanno già
detto ‘a parte Maradona non dimentichiamo questo meraviglioso pubblico
che è stato un dodicesimo giocatore in campo’? L’hanno già detto
‘Bianchi un allenatore modesto ma capace’? L’hanno già detto ‘sì va bene
festeggiamo ma non dimentichiamo i mille problemi che da secoli si
affacciano su Napoli’?”. Ovviamente tutto l’ovvio è stato detto, e
Troisi si limita allora a una pubblicità progresso, invitando a esultare
senza dimenticare acqua e gas aperti, e spiegando perché è rischioso,
con quel suo tono che rende irresistibili i pleonasmi. Poi, davanti ai
tifosi settentrionali che parlano dei napoletani “campioni del
Nordafrica”, conclude che è meglio essere campioni del Nordafrica che
fare striscioni da Sudafrica. Ma subito la voce gli scivola via da
questa battuta troppo sonante, troppo “benignesca”… Perché la comicità
di Troisi sta nei queruli balbettii, nelle afasie, nelle macchinose
contorsioni verbali che provocano un riso simile a un formicolio
crescente – riso che non dipende quasi mai da un singolo gesto o da una
singola battuta, ma dal ritmo di quella cantilena piagnucolosa,
esasperata, stridula, che gli esce a spizzichi dalle labbra sottili
piegate in una smorfia di disgusto, e che per restituire le minime
vibrazioni di un atteggiamento psicologico s’aiuta col gesticolare
sconfortato delle mani, col corpo paperescamente raccolto tra la testa
sporgente e le gambe piegate in dentro a difesa. A raccontarle, sembra
che di queste cantilene non rimanga niente: e infatti i veri
appassionati degli sketch di Troisi non li citano ma li mimano da cima a
fondo, imitando perfino la vocetta fessa.
Tuttavia, se il suo eloquio non si può “raccontare”, se ne può almeno
analizzare qualche frammento, e tentarne una definizione critica. Per
capire come questo comico introspettivo riesca a cogliere i più
impalpabili tra i meccanismi che governano le nostre scelte quotidiane,
partiamo da Non ci resta che piangere, il film dell’84 in cui
Troisi e Benigni si trovano catapultati nel mondo di fine Quattrocento.
Benigni si adatta presto; ma Troisi non regge a quella vita violenta e
puzzolente. Così una sera, in casa del mitico Vitellozzo, convince
l’amico a tentare un esperimento. Forse, dice, il viaggio nel tempo è
solo un fatto psicologico. Basta fingere, appena svegli, che non sia
successo niente. Ci si alza, si chiacchiera del tran tran di tutti i
giorni, si apre il portone, ed ecco che ci si ritroverà nel civile
Novecento. Così la mattina, davanti al portone chiuso, i due si
concentrano. Benigni imposta la voce, e snocciola frasi zeppe di oggetti
novecenteschi: “Con ‘sto pneumatico che s’è sgonfiato… senza
frigorifero… si va in banca, se non si piglia la scossa con la corrente
elettrica si citofona… ti faccio una telefonata e si esce con
l’autobus!”. Poi Troisi apre il portone e… niente: sulla strada c’è
sempre la Toscana di Savonarola. Allora si arrabbia con Benigni, perché
ha esagerato con tutti quei nomi moderni: così è chiaro che “se
n’accorge”. Se n’accorge? Ma chi? “Chi c’ha mandato qua… o tiempo, Dio… è
sfacciata accussì”. Ecco: Troisi è tutto qua, in questo “è sfacciata
accussì”, in questa rabdomantica capacità di render perspicue le
piccole, imbarazzanti, informi superstizioni dell’italiano qualunque,
che per lui non è un pagliaccio né una carogna, ma un eterno adolescente
attaccato ad abitudini familiari da cui gli deriva, insieme con una
pigrizia brancatiana, anche una brancatiana diffidenza per ogni grandeur.
Davanti al suo umorismo delicato, Benigni si riduce a rozza “spalla”.
Il napoletano è agli antipodi del toscano: non è un clown che spicca
sullo sfondo di una grigia realtà comune, ma un anti-clown che restaura
il senso comune inquinato da una realtà assurda, parossistica, tronfia.
A volte questa realtà si presenta coi tratti solenni di chi si
considera l’incarnazione della Cultura o della Fede: e Troisi smonta una
tale solennità riportandola al registro modesto della chiacchiera. “Sa
che cosa dice Cooper?” domanda intimidatorio, nel film d’esordio Ricomincio da tre
(1981), il professore che Gaetano-Troisi sorprende in vestaglia in casa
della zia, e che tenta di dare un supporto teorico al suo rapporto
irregolare con la signora. “Cioè, Cooper ha detto tante cose… mica una”
abbozza Troisi. “Ricordati che devi morire” gli ripete un predicatore
quattrocentesco in Non ci resta che piangere. “Mo’ me lo segno” ribatte lui con voce tremolante.
Ma in genere, l’assurdità del reale ha il volto di personaggi abitati
da un’idea fissa, a cui Troisi oppone la fioca voce della ragione. Le
spalle delle gag più riuscite sono dei maniaci o dei fanatici. Ad
esempio, in Ricomincio da tre è indimenticabile la sequenza in
cui l’autostoppista Gaetano viene caricato da Michele Mirabella, un
folle che ha deciso di uccidersi proprio andandosi a schiantare con la
macchina, per far sembrare la morte un incidente perfino agli occhi
divini, e per non scontare quindi il peccato mortale del suicidio. Alla
fine Gaetano, con parole simili a quelle di Non ci resta che piangere,
lo convince che lassù “loro sempre se n’accorgono” se uno fa peccato, e
riesce ad accompagnarlo a un centro di igiene mentale. Ma là trova un
altro folle, Marco Messeri, che gl’impone uno stridulo monologo sulla
sua invidia per Agnelli e Alain Delon. Nello stesso film, anche Lello
Arena e l’entusiasta predicatore americano che vuol risolvere tutto con
la “Parola” – per non parlare di Robertino, ometto tiranneggiato dalla
madre bigotta – sono in fondo degli ossessivi. Ma quasi dappertutto gli
alter ego di Troisi devono fronteggiare dei personaggi secondari rigidi,
impermeabili al dialogo, a volte “integrati” proprio perché folli.
L’elenco è lungo: si va dal primo Arena fino all’Angelo Orlando di Pensavo fosse amore invece era un calesse (1991). Ma l’attore più portato per ruoli del genere è Messeri. In Pensavo fosse amore
questo toscano tarchiato, dall’occhio vitreo, si chiama Enea, e si
mette con la donna di Tommaso-Troisi. Tutti lo considerano bellissimo.
Solo Tommaso sembra accorgersi di ciò che è ovvio: cioè del fatto che
Messeri è bruttarello ed è pure afflitto da un nome ridicolo. Tipica,
qui, anche l’opposizione tra il protagonista, che nei film di Troisi è
sempre pigro, sedentario, eduardianamente stanco, e il rivale pratico,
dinamico, che sembra saper fare qualunque cosa (viaggia in Oriente,
arbitra gare tra barbieri, ipnotizza galline…). Come i battibecchi con
le “spalle”, anche la pigrizia di questi alter ego, la loro
inadattabilità a lavoro e sport, servono a smascherare il grottesco
della società in cui vivono, in particolare la mania dell’efficienza, lo
stolido attivismo, l’agitazione inutile o sopra le righe: sono,
insomma, un antidoto contro i fanatici.
Questa contrapposizione assume un’evidenza didascalica in Le vie del Signore sono finite
(1987), che mette in scena il fanatismo per eccellenza: il fascismo. È
qui che davanti a una donna entusiasta dei puntuali treni di regime, il
protagonista osserva che se era questo il problema bastava nominare
Mussolini capostazione. Ed è qui che Camillo-Troisi, avendo portato due
pozioni di sua invenzione, contro la calvizie e contro il dolore, a un
gelido burocrate, solo mentre ne vanta la bontà si accorge del ritratto
del calvo Duce che campeggia sulla scrivania dell’interlocutore, e
apprende che secondo quel Duce “la via della salvezza è segnata dal
dolore”. Così, con un dietrofront da italiano abituato a piegarsi inerme
al potere, trasforma la réclame delle due boccette in una contrita
constatazione della loro inutilità. Perché Camillo non è un oppositore:
vuol solo essere lasciato in pace. E tuttavia, come certe figure di
Brancati, ha una passiva ironia che il fascismo non perdona. Infatti,
mentre tutti si integrano, lui è picchiato e arrestato.
A un mondo folle e burattinesco, gonfio di parole roboanti, la
comicità di Troisi non oppone battute altrettanto roboanti, pose
altrettanto burattinesche e stilizzate: è invece l’ultima, gelatinosa,
sommessa difesa dell’uomo che vuol restare integro. Perché qui sta la
sua singolarità: mentre i personaggi con cui viene a contrasto diventano
maschere sclerotiche, Troisi, pur essendo un comico puro e per giunta
napoletano, non è mai una maschera, ma resta un uomo intero. Non ha
bisogno delle stilizzazioni che gli attori-registi suoi coetanei usano
per distinguersi: delle idiosincrasie di Moretti, o della clownerie di
Benigni, o delle macchiette di Verdone (sapientemente sfruttate nell’82
in Morto Troisi, viva Troisi, finto servizio tv sulla propria morte dove i veri “morti” sono i colleghi che lo ricordano, cristallizzati nei loro tic).
Senza questa integrità, che gli permette di adattarsi alle nuances
più sottili della psicologia e delle intermittenze del cuore, l’attore
Troisi non potrebbe reggere i duetti agrodolci ingaggiati con
Mastroianni in Che ora è?, un elegiaco film di Scola su padri e
figli. Né potrebbe, nei suoi film, utilizzare le colte sceneggiature di
Anna Pavignano, e mantenere come leitmotiv le raffinate analisi del
rapporto di coppia. Sono queste analisi ad allontanare i film di Troisi
dalla commedia all’italiana, e a impregnarli di quella malinconia
umoristica che con mezzi diversi ottiene il Woody Allen meno stilizzato.
Chi ama Troisi non riesce a scindere le gag più esilaranti dalle sue
descrizioni delle fasi aurorali e poi subito autunnali dell’amore. Verso
le donne l’attore avanza sempre di sbieco, con un sorriso storto e
timido, mentre si ravvia i capelli o si sistema i vestiti con un gesto
cauto e quasi furtivo, già pronto a tirarsi indietro. Ma non ce n’è
ragione. Perché Troisi, che non ha una faccia di per sé comica, cioè una
di quelle facce che salvo eccezioni (vedi ancora Allen) condannano a
ruoli grotteschi e impediscono ogni introspezione, è quasi un bello: e
gli basta poco per diventare un seduttore – anche se un seduttore pigro,
incerto, antivirile.
Tra i tanti episodi amorosi ci vengono subito in mente, in Ricomincio da tre,
i dialoghi sul tradimento tra Gaetano e Marta. L’infedele Marta,
maniaca dell’emancipazione, sostiene che “quando c’è l’amore c’è tutto”;
ma Gaetano la corregge: “No, chella è ‘a salute”. E chi non ricorda la
loro discussione sul nome da dare al figlio? Lui sostiene che
“Mas-si-mi-lia-no” è troppo lungo: il tempo di scandirne le sillabe, e
il pargolo che si vorrebbe richiamare all’ordine sarà già andato a
combinar disastri chissà dove. Meglio il breve “Ugo”: il bambino verrà
su “più educato”. Gli alter ego di Troisi sono così presi dai tira e
molla sentimentali, che a volte l’innamoramento agisce sul fisico. Il
protagonista di Le vie del Signore sono finite vive in
carrozzella per attirare le attenzioni della donna che l’ha lasciato:
ennesima versione del Troisi indolente, ipocondriaco, seduttivo, e della
sua “comicità psicosomatica”. Ma l’innamoramento può anche far scordare
l’ipocondria. In Scusate il ritardo, Vincenzo è a letto con la
febbre. Gli sanguina il naso, e teme sia un’emorragia, sebbene la sua
mammona partenopea gli ripeta che è un raffreddore. Ma quando entra a
trovarlo la bella Giuliana De Sio, ribalta le carte: la mamma, che
apprensiva!, ha paura di un’emorragia, mentre lui sa bene che gli si è
solo rotta “‘na venuzza dint ‘o naso”… A volte, come in quel manualetto
sulla coppia che è Pensavo fosse amore, i discorsi teorici
brancatianamente prevalgono sulla vita sentimentale vissuta. Ma le scene
più frequenti, nella fenomenologia troisiana dell’eros, sono quelle in
cui, per riempire gli imbarazzanti silenzi davanti a una donna, il
seduttore diventa logorroico. Nei film di Troisi c’è sempre una ragazza
che assiste con un sorriso, non si sa se stordito o ipnotizzato, ai suoi
ragionamenti sfilacciati e contorti. In Scusate il ritardo,
per sedurre la De Sio, Vincenzo s’imbarca in un racconto del tutto fuori
luogo sulla sua infanzia da “terzo della classe”, finché la poveretta
(come l’amazzone di Non ci resta che piangere) sviene per l’estenuazione.
È insomma da un impulso sentimentale che nascono i più ingegnosi e
futili discorsi di Troisi sul mondo e sulla vita, le sue invenzioni
teoriche fatte di nulla. E queste invenzioni, lo si è detto, non
consistono tanto di singole battute, bensì di “situazioni verbali”.
Quasi procedendo a tentoni, il comico si fa prendere la mano da una tesi
o da un paragone, e li esagera arzigogolando. Oppure afferra
un’iperbole, o una parabola, e le porta sofisticamente all’assurdo
calandole nella vita quotidiana. Se parla della Napoli stereotipa di
sole, pizze e mandolini, descrive nei dettagli cosa accade dove tutti
anziché lavorare suonano uno strumento, mangiano mozzarella o si
abbronzano. Nel primo film, quando Gaetano non ne può più di sentire il
religioso Frankie che cita i dialoghi tra San Francesco e gli uccelli,
gli contrappone questa immagine del Santo: “Steva continuamente dint’
agli orecchi de cchiste povere bestie (…) secondo me gli uccelli non lo
sopportavano cchiù a San Francesco, cioè appena lo vedevano arrivà” se
n’andavano “‘n copp’ agli alberi”. Morale: “Per colpa di San Francesco è
nata la migrazione degli uccelli”.
Con questa tecnica della dilatazione puntigliosa, Troisi sa
ipnotizzare il pubblico per lunghi interminabili minuti mentre
filosofeggia sui modi diversi con cui americani e italiani aprono il
frigo, o descrive la posa che hanno i carabinieri guardando la tivù, o
ancora mentre spiega che non legge libri perché la gara è persa in
partenza, dato che lui è uno solo a leggere contro milioni di persone
che scrivono. Con la stessa cocciuta cavillosità tenta d’insegnare la
briscola a Leonardo da Vinci (Non ci resta che piangere), e di
dissuadere un rivale, innamorato come lui di una donna minuta,
spiegandogli che le donne minute si rattrappiscono fino a sparire (Le vie del Signore sono finite). E quanto a cavilli, come dimenticare la casistica sui miracoli che apre Ricomincio di tre?
Troisi si lamenta del padre, rimasto senza una mano, che prega la
Madonna di fargliela ricrescere. Gli sembra assurdo, perché i miracoli
mica fanno spuntare arti mancanti. Toccano gente che non ci vedeva e ha
riacquistato la vista, ma “i uocchie i tteneva”, gente che “nun
camminava e po’ ha camminato, ma i ccosce i tteneva”. Al che Arena
risponde che ci sono “miracoli facili” e “miracoli difficili”: ed è
continuando a dibattere su questa distinzione che spariscono
dall’obiettivo.
Troisi ha reso comica la puntigliosità, la chiosa che spacca il
capello in quattro. È napoletanissimo, coi suoi tempi comici perfetti,
eppure dentro questi tempi infila tutto ciò che, in modo assai poco
napoletano, inceppa l’eloquenza e impedisce l’icasticità
dell’espressione. “Prim’ e tutto…”: così iniziano, col gesto di chi
mette le mani avanti, i monologhi con cui si difende dalle intimidatorie
certezze degli interlocutori, allineando faticosamente una parola dopo
l’altra e riportando la disputa sul terreno di un sapere casalingo.
Anche le sue battute più famose sono un’ingegnosa difesa della più
comune e tenera quotidianità. Quando Arena lo mette davanti alla scelta
tra il giorno da leone e i cento da pecora, Troisi chiede se non sia
possibile passarne cinquanta da orsacchiotto, così non si fa “‘a figur’
‘e merd’ daa pecora, e nemmeno ‘o leone ca però campa nu jorn’”. Era,
questa dell’orsacchiotto, la sua vocazione. E avremmo voluto che i suoi
cinquanta giorni durassero molto più dei quarant’anni a cui il cuore lo
ha fermato.
Matteo Marchesini
Il Foglio, 1 settembre 2012
Massimo Troisi è stato un essere umano intelligente,gentile,poco incline ai modi urlati ma neanche ammiccante a una certa retorica 'radical chic' col portafogli a destra.Lo immagino domenica a 'Che tempo che fa' a presentar un suo film,e mentre lo immagino lo vedo mentre un pò svagato che fa finta di voler parlare sottovoce mente cambia discorso, asserendo che qualcuno li controlla,e mentre guarda Fazio gli dice 'Non so se si può dire sta cosa....ma ho saputo che vogliono mandare via i partiti dalla Rai.Schhh!!! non so se ci ascoltano quelli là,quelli dei grillini,mo io non lo so,Ma che per caso tu l'hai sentita sta cosa? Cioè io penso pure a uno che dice 'ma come ma ho fatto tanto per farmi nominare?',metti un presentatore per fare un esempio,mo è un esempio...,non ce l'ho con te;..cioè uno fa tanto per farsi nominare da un partito in rai e poi arrivano questi quà dei 5 stelle e ''pah!',e uno poi che fa?già ci sta sta a'disoccupazione e questi anzi che proporre qualche raccomandazione,qualche nuova assunzione mettono in giro ste cose.Metti che ne sò...pure il figlio di Minzolini,rischia di non lavorare al tg 1 per sta cosa qua! E' grave stu fatt Fabio! (pausa lunga)- tu c'hai... figli,Fabio?
RispondiEliminaProbabilmente non sarebbe così esplicito ma...è proprio il modo di costruire una gag televisiva di Massimo (con intercalari estratti da apparizioni televisive). Bravo! ;)
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