Oggi vi propongo un'intervista a Nanni Moretti che solo all'inizio parla, schiettamente, di Massimo Troisi. Riporto però anche il seguito che ci permette di respirare l'aria degli esordi di Massimo e un po' del pensiero di un autore-attore, che come lui, aveva e ha sempre qualcosa da dire di un certo spessore, con un suo stile degno di nota. Buona estate.
Cristiano
Massimo Troisi è morto il 4 giugno del 1994, venti anni fa esatti, all’età di 41 anni.
Alla fine del 2002 curai per il giornale un inserto che doveva servire a
lanciare una iniziativa editoriale nuova. Con la Repubblica sarebbe
uscita una collana di film italiani in Dvd. Tra i titoli previsti c’era
anche Il Postino, l’ultimo film interpretato da Troisi. Questo inserto
fu l’occasione per raccogliere, su Massimo Troisi, una testimonianza un
po’ speciale. Quella di Nanni Moretti, solitamente così riluttante a
parlare di film e colleghi italiani contemporanei. Ecco, di seguito,
quell’intervista. La quale, per esplicita richiesta dell’intervistato (e
non per sua imposizione come in tante altre circostanze), tenne fuori
le espressioni di affetto e di commozione più personali, che Moretti
preferì tenere per sé. E io ho rispettato il pudore dei suoi sentimenti.
Fu in ogni caso l’occasione per scoprire un legame di cui non sapevo nulla.
«Ho conosciuto Massimo Troisi una ventina d’anni fa attraverso
l’attore Marco Messeri. Ci siamo frequentati per un breve periodo e
abbiamo anche giocato dei doppi di tennis, noi due in coppia. Poi ci
siamo persi di vista e ci siamo ritrovati solo un po’ prima che morisse.
Ricordo che mentre io giravo Caro diario alle Eolie incontrai il
regista Michael Radford che faceva i sopralluoghi per Il postino…».
Che fu girato subito dopo…
«Sì, Massimo è morto nel giugno ‘94 e il suo film non era ancora uscito, il mio era uscito nell’autunno ’93. Aveva girato a Salina dopo di me. Mi
viene subito in mente di dire quello che Troisi non era: a differenza
della maggioranza dei registi, di qualsiasi generazione e capacità, non
era presuntuoso. Poi a differenza di altri comici non era una persona
noiosa».
Agli inizi lei, Moretti, era molto diffidente verso gli accostamenti generazionali…
«I nuovi comici, già. Troisi aveva quasi la mia stessa età. Aveva
qualche mese meno di Benigni che è della fine del ’52, e io che sono
nato nell’estate del ’53 ho qualche mese meno di lui…»
…A lei non piaceva essere assimilato alla categoria comica. Con gli anni il suo sguardo è diventato più affettuoso?
«Ma non è che io non avessi affetto per i registi ai quali venivo
associato. La mia insofferenza era per i giornalisti e le loro
semplificazioni. Poi infatti si è visto che ognuno di noi ha preso la
sua strada. Verdone, Troisi, Nuti, io, Benigni. Ero insofferente verso
una formula che voleva racchiudere personalità diverse».
Si ha però l’impressione che il tempo l’abbia resa più amichevole verso i colleghi coetanei, allora come lei debuttanti.
«Il mio sentimento verso Troisi è stato sempre amichevole. Mi piaceva
come attore e mi piaceva il suo non credersi diverso da quello che era. E
un’altra cosa voglio dire. Che non si avvertiva nei suoi film,
giustamente perché non è obbligatorio, ma credo che avesse anche una
curiosità e degli interessi politici decisi».
Che teneva per sé?
«Che uno magari non sospettava vedendo i film o, a prima vista, anche
dalla persona. Ma sicuramente non era un qualunquista, sia umanamente
che come spettatore. Aveva i suoi gusti nei confronti dei colleghi anche
se non gli andava di esibirli. Però li aveva: gusti, simpatie,
affinità. Non era come me che amori e odi li ho messi nei film e nelle
interviste».
Allarghiamo il discorso. La maturità ha cambiato i suoi gusti riguardo al cinema italiano, adesioni e ostilità?
«Scorrendo i titoli di questa vostra collana mi vengono in mente le
varie epoche della mia vita di spettatore. Quella del Nuovo Olimpia
quando vedevo i film di cinque, dieci o trent’anni prima. Poi l’epoca in
cui vedevo i film che uscivano in quel momento, e infine quella in cui
vedevo i film dei colleghi. "Roma città aperta" mi fa venire in mente la
prima. Allora c’erano i cineclub e c’erano i cinema d’essai, il Nuovo
Olimpia era il cinema d’essai storico di Roma, e lì la mia generazione
ha conosciuto la storia del cinema. (Tra parentesi, ora noi al Nuovo
Sacher montiamo "Il grande dittatore" e sono sicuro che un sacco di gente
non l’ha mai visto al cinema o non l’ha mai visto proprio, sarà
un’occasione per giovani e meno giovani). Poi è venuto il cinema
dell’impegno, Rosi. E "Ultimo tango a Parigi", che ho visto il primo
giorno, al cinema Quirinale: da pochi mesi avevo finito il liceo, era
l’autunno ’72, trent’anni esatti. I miei cambiamenti da spettatore del
cinema italiano? Sicuramente è rimasto il mio legame con il cinema
d’autore degli anni 60, di prima del ‘68. Poi le affinità con alcuni
registi. Tra i classici molti film di Fellini, come movimento il cinema
d’autore anni 60 non solo italiano. Poi viene il buco degli anni 80
quando è entrato in crisi il cinema di confezione, anche se gli autori
hanno continuato a fare bei film».
Parla da spettatore e da cinefilo. Ma come regista a chi si è ispirato?
«Si fa sempre la figura del megalomane a fare dichiarazioni su questo».
Agli inizi si sarà detto: vorrei somigliare a questo o quel regista?
«Io continuo a vedere molto cinema come spettatore, può capitare che
inconsapevolmente fai tue certe atmosfere o certi toni. Io ho cominciato
verso i 15 anni ad essere uno spettatore assiduo. Intorno al ‘68. Ho
fatto poca politica e dopo, tra il ‘70 e il ‘72 durante gli ultimi anni
di liceo. Nel ‘68 la mia giornata tipo era: scuola dove mi annoiavo,
pomeriggio al Nuovo Olimpia, e sera al Foro Italico per gli allenamenti
di pallanuoto. Non ho un’infanzia tipo Truffaut che andava a rubare le
locandine nei cinema. O come quelli che la mamma li portava tutti i
pomeriggi a vedere due film, no. Dopo la fine del liceo ho cominciato a
fare dei filmini, e mi prendevano per matto perché mi piacevano due modi
di fare cinema opposti: i Taviani e Carmelo Bene, che stilisticamente
non potevano essere più lontani: "San Michele aveva un gallo" e "Nostra
signora dei turchi". Può darsi, dopo aver macinato e digerito tanti film,
che poi certe scene riaffiorino nei miei film, non casualmente ma
involontariamente. In "Ecce Bombo" a un certo punto siamo in un bar e un
cliente dice “rossi e neri sono tutti uguali”, io mi metto a urlare “ma
che siamo in un film di Alberto Sordi?” e mi cacciano dal bar. I critici
ravvisarono l’analogia con una scena di Sovversivi di Paolo e Vittorio
Taviani dove Lucio Dalla viene cacciato da un bar. Un film che amavo
molto e ho visto tante volte, ma la mia non era una citazione: non mi
rendevo conto. Parentesi a proposito di “rossi e neri sono tutti
uguali”. Nel ‘94 sono andato a Milano a riprendere la manifestazione del
25 aprile inquadrando solamente ombrelli perché pioveva a dirotto,
eravamo un mese dopo la prima vittoria di Berlusconi e cominciavano quei
discorsi sui caduti da una parte e dall’altra, "Il manifesto" ebbe l’idea
di promuovere questa manifestazione che venne vissuta a sinistra come
una specie di rivincita. Non sapevo che quelle riprese sarebbero poi
finite dentro un mio film, "Aprile", quattro anni dopo. C’era uno
striscione, che ho filmato ma non montato perché sarebbe stata
un’autocitazione troppo vanitosa, che molti anni dopo Ecce Bombo diceva
“rossi e neri sono tutti uguali: ma che siamo in un film di Alberto
Sordi?”».
Insomma, tra dare e ricevere, le idee circolano.
«…Ecce Bombo uscì l’8 marzo del ‘78, tra poco saranno 25 anni, una
settimana prima del rapimento Moro, e il cinema dove uscì ora non c’è
più. Ma non ci lamentiamo, oggi gli schermi sono molti più di allora».
Altre citazioni involontarie?
«Un giorno incontrai Lou Castel che senza preamboli, come se tutto fosse
sottinteso, mi disse che la mia crisi isterica sul pavimento di un
androne in Sogni d’oro secondo lui citava il suo personaggio dei Pugni
in tasca».
Si direbbe anche che il tempo abbia ammorbidito la sua ostilità verso la
commedia italiana. A proposito: era così o è stata gonfiata?
«Ce l’avevo con il personaggio di Sordi e non con l’attore. Mi prendo
tutta la responsabilità, so che era una scena forte: anche nelle platee
più disponibili verso di me, durante quella scena si creava un gelo
pazzesco. Però a me piaceva moltissimo il Sordi attore soprattutto degli
anni 50 e 60, come attore comico ha inventato tantissimo. La commedia:
stiamo parlando di un periodo, quello dei miei inizi, fine anni 70, in
cui la migliore stagione della commedia italiana si era già spenta. E io
ero insofferente soprattutto verso i film che vedevo uscire in quel
periodo, ma se andiamo indietro ci sono dei film, anche minori, che mi
piacevano e mi piacciono moltissimo: come "Il segno di Venere" di Dino
Risi, con un cast eccezionale, Sordi e Peppino tra i tanti. Curioso è
casomai che giornalisti e critici considerino e chiamino “maestri”, solo
oggi, registi che i loro migliori film li hanno fatti negli anni 50 e
60».
I suoi rapporti personali con i maestri o con i registi più “grandi”?
«In realtà prima dei primi tre superotto, me lo sono ricordato in
occasione di una cena per i trent’anni dall’esame di maturità, avevo già
fatto un filmino in 8 mm con un mio compagno di classe che poi è
diventato frate domenicano…».
Sarebbe la sua vera opera prima…
«Già, fine ‘72. Me l’ha ricordato l’ex compagno frate alla cena. Ecco, a
quell’epoca io cominciavo ad andare in giro, dando sicuramente
l’impressione di essere velleitario e confuso, a chiedere di fare sia
l’assistente alla regia sia l’attore. Probabilmente darebbe a me oggi la
stessa impressione chi mi venisse a chiedere di fare entrambe le cose,
mi rendo conto che ero quantomeno goffo. Provai con Peter Del Monte, che
aveva assistito a un mio famoso “stronzi!” quando a Ischia premiarono
come miglior esordiente non me ma un altro…».
Chi?
«Era Giorgio Ferrara, fratello di Giuliano. Poi ho provato con i Taviani
e con Maurizio Ponzi. Tutte persone conosciute per caso. I miei
genitori erano insegnanti, non conoscevo nessuno dell’ambiente. Come
unica referenza avevo il piccolo boom di "Io sono un autarchico" in un
cineclub romano, il Filmstudio. Lei diceva “ammorbidito”… A me
piacerebbe vedere un bel cinema di confezione, come spettatore non sono
per niente contro e non lo sono mai stato. Ci sono tanti brutti film
“d’autore”. All’opposto, però, un film come "Victor Victoria", tanto per
fare un esempio, in Italia chi è che lo sa fare? Ci sono registi,
sceneggiatori e soprattutto produttori che sono contro il cinema
d’autore. E va bene, ma chiedo loro: dov’è il Victor Victoria italiano?
Le polemiche degli anni passati sul cinema italiano erano fatte di
luoghi comuni e frasi fatte, trite e ritrite. Due camere e cucina,
dicevano, oppure ombelicale. Ma dov’era invece il buon cinema di
confezione negli stessi anni 80 e 90? Ci sono stati tanti brutti film,
sì, ma il problema principale dell’industria cinematografica italiana
non sono stati i film “troppo personali”: Chi ha dato loro la colpa di
tutti i guai, che cosa ha combinato? Che cosa hanno fatto di
“industriale”, e per gli spettatori, in questi ultimi vent’anni? E sono
tanti, si possono fare duemila film in vent’anni».
Il Moretti imprenditore, oggi, come vede il pregiudizio negativo del pubblico verso i film italiani? E’ diminuito?
«Negli ultimi anni sì, ma sempre in modo episodico. Leggo qui sulla
vostra lista anche Pane e tulipani. Lì è stato il pubblico che fin dai
primi giorni ha deciso che voleva vederlo e che gli piaceva molto. Ci
sono persone in questo ambiente che vorrebbero ricette e sicurezze: io
dico ancora – come spettatore, regista, esercente e produttore – che per
fortuna non ci sono. Ma è certo, a proposito del film di Soldini
uscito all’inizio del 2000, che è stato un successo quello che solo un
paio di stagioni prima non lo sarebbe stato».
Conoscerà anche lei gente, né registi né giornalisti ma spettatori, che
diffidava e diffida dei film italiani in quanto italiani.
«Purtroppo anche un sacco di gente di cinema, li conosco bene. E poi,
purtroppo, a diffidare è proprio il pubblico del cinema di qualità,
quello che vent’anni fa cominciava ad essere “educato” dai listini
dell’Academy e poi da quelli di Mikado e Bim, proprio quel pubblico che
sceglie i film e non si fa influenzare dalla pubblicità e va al cinema
non due o tre volte l’anno ma molto di più, proprio questo pubblico fino
a due o tre anni fa aveva un pregiudizio negativo profondamente
radicato nei confronti del cinema italiano. In parte giustificato in
parte no. Qui si tratta, anche con l’aiuto della televisione e di
programmi di informazione sul cinema che non ci sono, di ridare smalto
al cinema. Che, come uno spettatore francese sa bene, è
contemporaneamente mezzo espressivo e industria. E invece i giornali,
più vittime che protagonisti, fanno il contrario: polemiche inventate,
interviste già lette altre cento volte. E poi, lo dico con più libertà
dopo che durante, la mancanza di uno come Veltroni, quando era ministro
della cultura c’era la persona giusta nel ruolo giusto. E’ vero che ora
il pregiudizio è un po’ meno forte, ma i progressi li hanno realizzati
da soli gli spettatori da una parte e i registi dall’altra, mentre tutto
il clima intorno…».
Cioè l’informazione.
«L’informazione, la televisione, le premiazioni, l’aver allontanato
Barbera dalla Mostra del cinema. Tutti segnali molto negativi. E non si
tratta di sinistra e destra, in passato ci sono stati direttori di
sinistra a Venezia che a mio parere non hanno fatto un buon lavoro,
Barbera è soprattutto un ottimo professionista e averlo allontanato ha
appannato in pochi mesi un immagine ritrovata della Biennale. Per questo
dico che se le cose sono un po’ migliorate si deve solo al reciproco
essersi cercati, film italiani e pubblico italiano e viceversa, malgrado
un clima che dopo qualche segnale positivo è tornato indietro. Io nel
mio piccolo ho fatto qualcosa, ho prodotto tre esordi di cui vado
orgoglioso: Mazzacurati, Luchetti, Calopresti. Non so quanti produttori
negli ultimi 15 anni, molto più grandi di noi, hanno fatto esordire tre
registi diventati poi tra i più importanti del nostro cinema. Noi,
minuscoli, possiamo vantare questo bilancio. Fior di produzioni, molto
più grandi di noi, che cosa hanno fatto?».
Senza togliere proprio nulla a Mazzacurati, Luchetti, Calopresti, lei sa
bene che il grande peso specifico di tutte le iniziative Sacher dipende
molto dal fatto che lei rappresenta una bandiera.
«Ma i film li hanno fatti loro. E ora sono tre dei maggiori registi del
cinema italiano. E prima del mio prossimo film voglio ancora produrre
delle opere prime, una o due. In questo senso stiamo lavorando, Angelo
Barbagallo ed io, e non da poco tempo».
Il concorso per soggetti che Sacher ha bandito farà da vivaio?
«Anche. Ma già da un paio d’anni abbiamo sviluppato dei progetti. Un
processo piuttosto anomalo: di solito sono gli aspiranti registi che
inseguono i produttori per anni. In questo caso succede il contrario».
E’ lei, produttore, che cerca talenti?
«Persone che non mi hanno chiesto nulla, sono io a offrire loro di
esordire. Ma tra le nostre iniziative voglio anche citare le rassegne
estive con dibattito all’Arena Sacher. “Viva l’Italia”, nel 2000. Il
senso era: volete parlare male del cinema italiano? Va bene, ma prima
almeno vedetelo. Poi quest’anno “Bimbi belli”, dedicata agli esordi. Due
estati fa in arena c’erano tante persone che per via di quel
pregiudizio non avevano visto film che poi invece sono piaciuti».
Dimentica la ragione principale: perché era lei a patrocinare l’iniziativa.
«Ma i film, poi, se piacevano non piacevano per questa ragione. E
c’erano film che non solo quel pubblico non aveva mai visto ma che aveva
voluto non vedere. Quando poi li hanno visti e sono piaciuti, mica è
successo perché c’ero io…».
Quello spettatore “colto” che lei prima descriveva è parte decisiva del
pubblico che ha fatto la fortuna del suo Nuovo Sacher a Roma. Un
pubblico un po’ snob…
«E se coltivano un pregiudizio loro, figuriamoci gli altri…».
Paolo D'Agostini