di Gianmaria Tammaro
Il genio a Napoli ha i tratti di Massimo Troisi e di Eduardo De Filippo;
ha una fronte alta e prominente, un viso incavato con gli zigomi che si
fanno evidenti e le labbra sempre acconciate in un sorriso piccolo,
ombroso. Sotto una magrezza eccessiva si nasconde una spontaneità
impetuosa e drammaticamente comica; si nascondono la fluidità dei gesti e
la semplicità delle parole.
Oggi, 4 giugno, sono 21 anni che Massimo Troisi è
morto. Era il 1994 e Massimo se ne andò nel sonno. Tra i memoriali che
ne ricordano il talento e l’abilità come regista e attore, solo una
cosa, piccola ma essenziale, appare chiara: non ne avremo più di artisti
come lui. Non avremo più attori o registi, o semplicemente
caratteristi, in grado di incantare il pubblico con la loro
quotidianità. Perché Troisi era soprattutto questo: una persona
qualunque. Uno specchio, un fantasma, un’ombra della Napoli del
dopoguerra, che ha resistito – nonostante la disoccupazione, la crisi e
la povertà – fino agli anni 60 e si è, a tentoni, risollevata.
Massimo Troisi era condannato dalla sua stessa comicità: non riusciva
a parlare, nemmeno in assemblee pubbliche e importanti, senza scatenare
in chi lo ascoltasse ilarità. E non perché dicesse cose assurde o
divertenti. Come ricorda Lello Arena, aveva la fama di grande attivista
fin da piccolo, con le sue idee già formate e la sua percezione precisa
del mondo. Usciva scosso da queste assemblee. E chiedeva: «che vita mi
aspetta se la gente ride quando dico cose serie?»
Il suo esordio come attore avvenne quasi per caso. Probabilmente non
aveva mai messo in conto, fino a quel giorno, di darsi al teatro e alla
recitazione. Successe che uno degli interpreti di una piccola messa in
scena nella chiesa di San Giorgio a Cremano, dove c'era anche Lello
Arena, non si presentò. Il regista, allora, propose di prendere Massimo
Troisi. E lo spettacolo andò benissimo.
Massimo interpretava un salumiere: aveva con sé un paniere e doveva
elencare tutti i suoi prodotti. Il problema? Non ricordava l'elenco
preciso e così ricominciava punto e a capo ogni due, tre parole. E il
pubblico intanto era piegato dalle risate. Nacque così anche il
sodalizio con Lello Arena. Troisi andò a trovarlo a casa, in via Recanati. I due divennero amici, poi colleghi, infine co-fondatori, insieme a Enzo De Caro, de La Smorfia.
Il Troisi che abbiamo imparato a conoscere attraverso film,
interviste e apparizioni pubbliche non era poi molto diverso da quello
che si incontrava in privato, magari dietro le quinte di un palco prima
di uno spettacolo. Era una persona spontanea, genuina. E innamorata
delle donne. Sempre Lello Arena ricorda che qualche volta capitava di
dover gestire più spasimanti, anche tre contemporaneamente. E poi aveva
una passione grande, enorme, per la squadra di calcio del Napoli. Era un
tifoso fedele, quasi religioso, e amico di Diego Armando Maradona. Fondò anche una squadra per beneficenza, con cui giocò al San Paolo contro i grandi del pallone di quegli anni.
Non basta elencare i film a cui prese parte e quelli che diresse; non basta sicuramente dire che ottenne una nomination all’Oscar per Il Postino e
che la sua comicità riuscì a fare breccia anche all’estero. Troisi va
ricordato innanzitutto per le sue parole, per i suoi modi affabili e
gentili (c’è un video su youtube in cui parla con una bambina mentre è
al trucco; le parla sinceramente, come fosse una donna adulta, senza mai
prenderla in giro o, in qualunque modo, sottovalutarla per la sua età);
per la sua grande amicizia con tante, tantissime persone, tra cui va
sicuramente citato Pino Daniele, che curò quasi tutte le colonne sonore
dei suoi film.
È una storia che abbiamo sentito ripetere fino alla nausea, quella
dell’amicizia tra il regista e il cantante, e che quindi non serve
raccontare per l’ennesima volta. Bastano le immagini, solo quelle, di un
Troisi seduto in poltrona, in maniche di camicia e con i capelli
pettinati all’indietro, che ascolta pazientemente, con attenzione, il
nuovo pezzo di Daniele, che gli consiglia qualcosa, piano,
sussurrandolo. E che poi annuisce e muovendo appena la testa tiene il
tempo mentre il cantautore ricomincia a suonare.
Perché ci si ostini a ricordare Troisi ogni anno, a ogni anniversario
della sua nascita e della sua morte, non è un mistero per nessuno:
manca anche a quelli che non l’hanno mai conosciuto se non attraverso i
suoi film e le immagini di repertorio de La Smorfia. Le frasi delle sue commedie sono entrate, di diritto, nell’immaginario comune.
Massimo, oggi, potrebbe essere un ragazzo qualunque di Napoli: lo
stesso fisico sottile, magrissimo, la stessa gestualità ed espressività.
L’incapacità di farsi prendere sul serio, ma la forza,
dirompente, di arrivare al cuore delle persone con una parola
mangiucchiata, mormorata male o più semplicemente ripetuta con il suo
tono isterico, ansioso e incerto. Massimo oggi potrebbe essere un
bambino che gioca a pallone in piazza, innamoratissimo della maglia
della sua squadra, fedele, come sono fedeli certi cristiani che vanno in
pellegrinaggio ogni anno, al San Paolo e agli undici uomini che lo
animano. Massimo, oggi, potrebbe essere l’uomo della strada, il
salumiere o il pescivendolo del mercato; potrebbe essere il ristoratore
del Lungomare, e il portiere del palazzo. Potrebbe essere lo scugnizzo
di San Giorgio a Cremano, che sta in piazzetta il pomeriggio, in giro la
sera, con gli amici in qualunque momento.
Massimo Troisi potrebbe essere tutte queste cose perché in lui, come in tutte queste persone, era viva la napoletanità:
non quella esagerata e fumosa che spesso viene usata come una scusa; ma
quella spontanea, profonda, che fa di un napoletano un poeta e di un
poeta, qualche volta, un napoletano.