I giochi, le feste, i semi di
pomodoro, la malattia, il sosia americano: a vent'anni dalla morte, il ricordo
dell'attore. E di una vacanza speciale passata assieme a lui
«Massimo, ma che orologio hai,
una cipolla da tasca?». «No, non è l'orologio, è il mio cuore».
Era notte. Nella penombra del
soggiorno dove ci eravamo incontrati vagando alla ricerca di un rimedio
all'insonnia, percepivo, amplificato dall'assoluto silenzio della stanza, un
leggero ticchettio del quale però, guardandomi intorno, non riuscivo a capire
la provenienza. Fu così che Massimo Troisi, con il suo tono scanzonato e un po'
esitante da ragazzo timido, mi rivelò di avere problemi cardiaci. Anzi, che li
aveva avuti, ma sembrava che tutto fosse risolto. E guardandolo era difficile
pensare il contrario.
Quella notte a Porto Rafael
(Costa Smeralda), nella casa di vacanza del nostro comune amico Vittorio
Zeviani (che ogni estate ospitava molti amici, per lo più del mondo dello
spettacolo e della moda), in quella sorta di noboby's land, o di spazio delle
confidenze che si crea tra insonni, Massimo mi raccontò di come, quand'era
ragazzo, si era accorto che il suo cuore non funzionava bene; in seguito aveva
subito un intervento a Houston dove, grazie a una valvola, gli avevano salvato
la vita. Se era preoccupato, se sentiva che la sua vita fosse a rischio, non lo
dava a vedere, al contrario, anche quel racconto, fatto con il suo consueto
tono leggero, comico anche in un contesto drammatico, con quell'ironia che lo aiutava
a minimizzare il disagio proprio o altrui, mi aveva tolto dall'imbarazzo della
mia domanda e fatto sorridere nonostante quei ricordi non proprio felici.
Quella notte assieme alle sue
parole ho ascoltato anche il suo cuore, che parlava, attraverso quel monocorde
ticchettio, un linguaggio rassicurante. Me la ricordo bene quella voce da
orologio a cipolla che usciva dal suo petto attraverso le labbra cucite della
cicatrice, una scansione del fluire del tempo che allora, ingannevolmente,
sembrava non dovesse aver fine, ma che in realtà gli annunciava che la sua vita
sarebbe durata soltanto una manciata di anni. Però allora il pensiero non ci
sfiorò la mente, e infine, tra confidenze e infinite battute, crollammo
addormentati.
Sono trascorsi vent'anni da
quando il ticchettio del tempo, e del suo cuore, si è fermato. Ed è ancora
difficile accettarlo.
Com'era Massimo? Speciale in ogni
momento, più di quanto, chi non l'ha conosciuto, possa immaginare. Forse la sua
grande popolarità, immutata anche tanti anni dopo la sua scomparsa, è dovuta al
fatto che quando recitava lui rimaneva sempre se stesso, o anche perché oggi,
più che mai, risuona l'assenza della sua voce in tempi di vuoto assordante. Lui
dominava la scena anche quando se ne stava in disparte, in silenzio,
limitandosi a osservare, o a guardare di sottecchi, con quello sguardo misto
tra curiosità, candore e divertimento. Con Massimo sembrava sempre di trovarsi
nella scena di un suo film, e infatti, inevitabilmente, arrivava un suo
commento, sempre leggero ma lapidario, o una battuta folgorante che oltre a far
riflettere scatenava una risata (nostra) e un lieve sorriso (suo).
Era un uomo, anzi, un eterno
ragazzo, intelligente, profondo, sensibile, malinconico, dotato di quel guizzo
di fantasia e d'intuizione che contraddistingue il vero talento; ed era anche
semplice, nonostante il successo, umile e quasi inconsapevole del suo valore,
come accade solo ai migliori: una personalità complessa, la sua, non subito
decifrabile, ma che traspariva da quel bozzolo di ironia e di indolenza con la
quale si avvolgeva per proteggersi dal mondo.
Massimo era gentile, ma molto
riservato. Non che non gli piacesse la gente (però detestava gli ipocriti) ma
essere sempre riconosciuto e sommerso di complimenti lo imbarazzava. Gli
piaceva starsene appartato, tra amici, in casa o in barca (Vittorio metteva a
disposizione dei suoi ospiti un'imbarcazione a vela). Non amava uscire a cena e
ancor meno frequentare la mondanità della Costa Smeralda: una sera, dopo molte
insistenze andammo a una festa, e la padrona di casa (oggi diventata una nota e
battagliera politica), pur di riuscire a farlo partecipare invitò tutto il
gruppo (eravamo almeno una dozzina): lui però era a disagio, non vedeva l'ora
di andarsene. Quando usciva di casa si limitava quindi a qualche breve
passeggiata nella piazzetta di Porto Rafael o sulla spiaggia vicina, quasi
sempre deserta.
Massimo era molto pigro. Se ne
stava mollemente sdraiato sui bassi divani all'orientale che arredavano il
soggiorno e la terrazza, oppure si lasciava cullare dal dondolio della barca,
tra i cuscini disposti a prua. Non stava mai troppo al sole, ancora più
raramente in acqua: si calava in mare dalla scaletta, senza lasciarla, e poi
risaliva subito, perché non gli piaceva non toccare il fondo, non si fidava.
Canticchiava canzoni simbolo della tradizione napoletana come I' te vurria vasà
o Te voglio bene assaje e noi ci univamo in coro: poi, come avveniva sempre
quando lui era presente, si innestava una reazione a catena di risate, fino
alle lacrime. Una sera scatenò addirittura un mal di pancia collettivo quando
si esibì in una caricatura (come se fosse possibile) della sceneggiata
napoletana intonando I sto' carcerato e mamma more.
C'erano due momenti in cui
Massimo diventata improvvisamente serio e scattante: quando gli si insinuava
un'idea da utilizzare per il suo lavoro, e allora si alzava lesto, o
interrompeva la cena, per isolarsi e mettere nero su bianco quello che lo aveva
ispirato. Oppure, accadeva quando si decideva di trascorrere la serata
giocando.
Massimo prendeva il gioco (o la
competizione) molto sul serio, non gli piaceva perdere. Dopo cena, sul grande
terrazzo di casa affacciato sul mare, ci si divideva in squadre per sfidarsi
nei più classici giochi di società. Il più apprezzato e divertente era il gioco
del mimo dei film, nel quale lui era ovviamente ferratissimo, e trovava come
accaniti antagonisti Lino Patruno, grande jazzista ed esperto cinematografico,
ed io, certo non esperta, ma specializzata in film di nicchia (cioè che pochi
altri avrebbero la voglia di guardare). Si scatenavano battaglie di ore, dove
gli ospiti a mano a mano crollavano, mentre noi proseguivamo fino all'alba. Di
due film mi ricordo in particolare, perché su quei titoli Massimo manifestò un
certo disappunto: Il posto delle fragole di Bergman, che mi ostinavo a non
indovinare (un caso di rimozione da noia, credo) e I quattro dell'oca
selvaggia, che lui tentò di mimare imitando, appunto, un'oca: accortosi della
difficoltà e del rischio di oltrepassare l'aspetto comico scivolando nel
ridicolo, mentre agitava le braccia come ali mi guardò con un velato rimprovero
apostrofandomi con un «Managgia a te!».
Massimo aveva scoperto di avere
un sosia in America, un attore italo-americano, Bonar Colleano: gliel'aveva
rivelato Lino Patruno, e questa scoperta l'aveva intrigato. Non c'era Internet
allora, non si poteva appurare immediatamente la somiglianza, e così la
curiosità aumentava il fascino di quella scoperta. Lo raccontava a tutti, ma
non riuscendo a ricordare il nome del suo «gemello d'oltreoceano», continuava a
chiamare Lino per chiedergli come si chiamasse, trasformando quella curiosità
in un tormentone. Strana coincidenza: anche Bonar Colleano morì molto giovane,
a soli 34 anni, nel 1958.
Massimo, poi, detestava i semi di
pomodoro. Me ne resi conto quando per cena preparai una pasta al pomodoro (le
altre donne di casa erano per lo più modelle, la cucina era per loro un luogo
misterioso). Era tardi, il gruppo reduce dalla gita in barca era famelico e,
nella fretta, molti semini restarono nella salsa. Un dettaglio irrilevante per
tutti tranne che per lui: quando se ne accorse non ne prese neppure una
forchettata, anche se continuò a fissare la pasta con ostinazione e a chiedere:
« È buona? Sì, vero? Dev'essere buona…»
Non accadde più, ovviamente, e la caccia al semino intruso divenne da
quel momento una sorta di crociata. Da allora, se preparo il sugo di pomodoro
per un ospite, sto attenta che neppure un seme filtri nella salsa. Una sorta di
omaggio alla sua idiosincrasia.
L'anno successivo ho reincontrato
Massimo, sempre a casa di Vittorio. Non era più solo, nella sua vita era
entrata Clarissa Burt: bella, intelligente, simpatica, insieme formavano una
coppia affiatata e divertente. Lui, sempre pronto a scherzare su tutto, e lei,
per problemi di lingua e di indole, non sempre in grado di afferrarne le
sfumature, davano vita a comici misunderstanding. Ma erano innamorati e felici.
E questo bastava…
Bastava? Difficile non pensare alla
celebre battuta di Massimo in Ricomincio da tre: «Quando c'è l'amore c'è
tutto».
«No, ti sbagli, chella è 'a
salute».
Anna Mazzotti
Fonte: Vanity Fair
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