mercoledì 9 luglio 2014

Massimo Troisi e quel cuore rumoroso: il ricordo di Anna Mazzotti

I giochi, le feste, i semi di pomodoro, la malattia, il sosia americano: a vent'anni dalla morte, il ricordo dell'attore. E di una vacanza speciale passata assieme a lui

«Massimo, ma che orologio hai, una cipolla da tasca?». «No, non è l'orologio, è il mio cuore».

Era notte. Nella penombra del soggiorno dove ci eravamo incontrati vagando alla ricerca di un rimedio all'insonnia, percepivo, amplificato dall'assoluto silenzio della stanza, un leggero ticchettio del quale però, guardandomi intorno, non riuscivo a capire la provenienza. Fu così che Massimo Troisi, con il suo tono scanzonato e un po' esitante da ragazzo timido, mi rivelò di avere problemi cardiaci. Anzi, che li aveva avuti, ma sembrava che tutto fosse risolto. E guardandolo era difficile pensare il contrario.
Quella notte a Porto Rafael (Costa Smeralda), nella casa di vacanza del nostro comune amico Vittorio Zeviani (che ogni estate ospitava molti amici, per lo più del mondo dello spettacolo e della moda), in quella sorta di noboby's land, o di spazio delle confidenze che si crea tra insonni, Massimo mi raccontò di come, quand'era ragazzo, si era accorto che il suo cuore non funzionava bene; in seguito aveva subito un intervento a Houston dove, grazie a una valvola, gli avevano salvato la vita. Se era preoccupato, se sentiva che la sua vita fosse a rischio, non lo dava a vedere, al contrario, anche quel racconto, fatto con il suo consueto tono leggero, comico anche in un contesto drammatico, con quell'ironia che lo aiutava a minimizzare il disagio proprio o altrui, mi aveva tolto dall'imbarazzo della mia domanda e fatto sorridere nonostante quei ricordi non proprio felici.

Quella notte assieme alle sue parole ho ascoltato anche il suo cuore, che parlava, attraverso quel monocorde ticchettio, un linguaggio rassicurante. Me la ricordo bene quella voce da orologio a cipolla che usciva dal suo petto attraverso le labbra cucite della cicatrice, una scansione del fluire del tempo che allora, ingannevolmente, sembrava non dovesse aver fine, ma che in realtà gli annunciava che la sua vita sarebbe durata soltanto una manciata di anni. Però allora il pensiero non ci sfiorò la mente, e infine, tra confidenze e infinite battute, crollammo addormentati.
Sono trascorsi vent'anni da quando il ticchettio del tempo, e del suo cuore, si è fermato. Ed è ancora difficile accettarlo.

Com'era Massimo? Speciale in ogni momento, più di quanto, chi non l'ha conosciuto, possa immaginare. Forse la sua grande popolarità, immutata anche tanti anni dopo la sua scomparsa, è dovuta al fatto che quando recitava lui rimaneva sempre se stesso, o anche perché oggi, più che mai, risuona l'assenza della sua voce in tempi di vuoto assordante. Lui dominava la scena anche quando se ne stava in disparte, in silenzio, limitandosi a osservare, o a guardare di sottecchi, con quello sguardo misto tra curiosità, candore e divertimento. Con Massimo sembrava sempre di trovarsi nella scena di un suo film, e infatti, inevitabilmente, arrivava un suo commento, sempre leggero ma lapidario, o una battuta folgorante che oltre a far riflettere scatenava una risata (nostra) e un lieve sorriso (suo).

Era un uomo, anzi, un eterno ragazzo, intelligente, profondo, sensibile, malinconico, dotato di quel guizzo di fantasia e d'intuizione che contraddistingue il vero talento; ed era anche semplice, nonostante il successo, umile e quasi inconsapevole del suo valore, come accade solo ai migliori: una personalità complessa, la sua, non subito decifrabile, ma che traspariva da quel bozzolo di ironia e di indolenza con la quale si avvolgeva per proteggersi dal mondo.

Massimo era gentile, ma molto riservato. Non che non gli piacesse la gente (però detestava gli ipocriti) ma essere sempre riconosciuto e sommerso di complimenti lo imbarazzava. Gli piaceva starsene appartato, tra amici, in casa o in barca (Vittorio metteva a disposizione dei suoi ospiti un'imbarcazione a vela). Non amava uscire a cena e ancor meno frequentare la mondanità della Costa Smeralda: una sera, dopo molte insistenze andammo a una festa, e la padrona di casa (oggi diventata una nota e battagliera politica), pur di riuscire a farlo partecipare invitò tutto il gruppo (eravamo almeno una dozzina): lui però era a disagio, non vedeva l'ora di andarsene. Quando usciva di casa si limitava quindi a qualche breve passeggiata nella piazzetta di Porto Rafael o sulla spiaggia vicina, quasi sempre deserta.

Massimo era molto pigro. Se ne stava mollemente sdraiato sui bassi divani all'orientale che arredavano il soggiorno e la terrazza, oppure si lasciava cullare dal dondolio della barca, tra i cuscini disposti a prua. Non stava mai troppo al sole, ancora più raramente in acqua: si calava in mare dalla scaletta, senza lasciarla, e poi risaliva subito, perché non gli piaceva non toccare il fondo, non si fidava. Canticchiava canzoni simbolo della tradizione napoletana come I' te vurria vasà o Te voglio bene assaje e noi ci univamo in coro: poi, come avveniva sempre quando lui era presente, si innestava una reazione a catena di risate, fino alle lacrime. Una sera scatenò addirittura un mal di pancia collettivo quando si esibì in una caricatura (come se fosse possibile) della sceneggiata napoletana intonando I sto' carcerato e mamma more.

C'erano due momenti in cui Massimo diventata improvvisamente serio e scattante: quando gli si insinuava un'idea da utilizzare per il suo lavoro, e allora si alzava lesto, o interrompeva la cena, per isolarsi e mettere nero su bianco quello che lo aveva ispirato. Oppure, accadeva quando si decideva di trascorrere la serata giocando.

Massimo prendeva il gioco (o la competizione) molto sul serio, non gli piaceva perdere. Dopo cena, sul grande terrazzo di casa affacciato sul mare, ci si divideva in squadre per sfidarsi nei più classici giochi di società. Il più apprezzato e divertente era il gioco del mimo dei film, nel quale lui era ovviamente ferratissimo, e trovava come accaniti antagonisti Lino Patruno, grande jazzista ed esperto cinematografico, ed io, certo non esperta, ma specializzata in film di nicchia (cioè che pochi altri avrebbero la voglia di guardare). Si scatenavano battaglie di ore, dove gli ospiti a mano a mano crollavano, mentre noi proseguivamo fino all'alba. Di due film mi ricordo in particolare, perché su quei titoli Massimo manifestò un certo disappunto: Il posto delle fragole di Bergman, che mi ostinavo a non indovinare (un caso di rimozione da noia, credo) e I quattro dell'oca selvaggia, che lui tentò di mimare imitando, appunto, un'oca: accortosi della difficoltà e del rischio di oltrepassare l'aspetto comico scivolando nel ridicolo, mentre agitava le braccia come ali mi guardò con un velato rimprovero apostrofandomi con un «Managgia a te!».

Massimo aveva scoperto di avere un sosia in America, un attore italo-americano, Bonar Colleano: gliel'aveva rivelato Lino Patruno, e questa scoperta l'aveva intrigato. Non c'era Internet allora, non si poteva appurare immediatamente la somiglianza, e così la curiosità aumentava il fascino di quella scoperta. Lo raccontava a tutti, ma non riuscendo a ricordare il nome del suo «gemello d'oltreoceano», continuava a chiamare Lino per chiedergli come si chiamasse, trasformando quella curiosità in un tormentone. Strana coincidenza: anche Bonar Colleano morì molto giovane, a soli 34 anni, nel 1958.

Massimo, poi, detestava i semi di pomodoro. Me ne resi conto quando per cena preparai una pasta al pomodoro (le altre donne di casa erano per lo più modelle, la cucina era per loro un luogo misterioso). Era tardi, il gruppo reduce dalla gita in barca era famelico e, nella fretta, molti semini restarono nella salsa. Un dettaglio irrilevante per tutti tranne che per lui: quando se ne accorse non ne prese neppure una forchettata, anche se continuò a fissare la pasta con ostinazione e a chiedere: « È buona? Sì, vero? Dev'essere buona…»  Non accadde più, ovviamente, e la caccia al semino intruso divenne da quel momento una sorta di crociata. Da allora, se preparo il sugo di pomodoro per un ospite, sto attenta che neppure un seme filtri nella salsa. Una sorta di omaggio alla sua idiosincrasia.

L'anno successivo ho reincontrato Massimo, sempre a casa di Vittorio. Non era più solo, nella sua vita era entrata Clarissa Burt: bella, intelligente, simpatica, insieme formavano una coppia affiatata e divertente. Lui, sempre pronto a scherzare su tutto, e lei, per problemi di lingua e di indole, non sempre in grado di afferrarne le sfumature, davano vita a comici misunderstanding. Ma erano innamorati e felici. E questo bastava…
Bastava? Difficile non pensare alla celebre battuta di Massimo in Ricomincio da tre: «Quando c'è l'amore c'è tutto».
«No, ti sbagli, chella è 'a salute».  
Anna Mazzotti
Fonte: Vanity Fair
    


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