«Massimo Troisi? Mi ha conquistato con il suo essere poco napoletano, rifiutava come me i luoghi comuni sul meridione, la retorica, l'esagerazione e l'ostentata familiarità. Era un intellettuale perché sapeva regalare una risata impegnata e non diretta alla semplice evasione». Ettore Scola scava nella sua memoria per ricostruire la figura di un amico e collega. Due campani accomunati dalla passione per il cinema, ma prima di tutto complici nella missione di «restituire valore e nobiltà all'animo meridionale». Sul set i due artisti si sono incontrati tre volte: nel 1989 per «Splendor» e «Che ora è», insieme anche a Marcello Mastroianni, e l'anno seguente per «Il viaggio di Capitan Fracassa», un omaggio alla commedia dell'arte. Scola torna a parlare di Troisi in pubblico in occasione della quinta edizione del Bari international film festival, di cui è presidente dal 2009. La kermesse barese dedica la sua seconda retrospettiva, dopo quella riservata a Gian Maria Volonté, al grande attore e regista partenopeo.
Ma come avvenne l'incontro tra Scola e Troisi?
«Non è stato per il cinema, la prima volta che ho visto Massimo faceva teatro con la Smorfia, in trio con Enzo Decaro e Lello Arena, e mi colpì la sua comicità, studiata e attenta a non cadere negli stereotipi, cosa non scontata per un napoletano. Per Troisi la farsa doveva sempre contenere un aspetto di critica costruttiva. Era un artista ‘‘impegnato'', parola oggi dimenticata, purtroppo, lui studiava e conosceva profondamente il suo tempo. Ad esempio lui e Volonté non hanno nulla in comune, sono due attori completamente diversi, ma erano entrambi due intellettuali».
Che stavano per lavorare insieme.
«A dir la verità furono loro a propormi un progetto: volevano interpretare due anarchici sconclusionati in giro per l'Italia agli inizi del Novecento. Purtroppo, poi, non si fece più nulla».
Com'era Troisi sul set?
«Eravamo come due familiari che lavorano insieme, tra me e lui c'era una grande complicità. Avevamo un rapporto fatto di comprensione, stima e di ‘‘consolanza'': provavamo entrambi un grande piacere nel lavorare insieme, ci scambiavamo consigli e pareri. I suoi film in quegli anni erano campioni d'incassi, un po' come il fenomeno Checco Zalone di adesso. Io stesso gli dicevo che fare film con me non gli conveniva, erano un genere troppo di nicchia. Lui invece mi rispondeva: ‘‘Ettore con te mi riposo e non mi sembra di faticare''. Questo per un regista era un grande complimento».
Che cosa faceva arrabbiare Troisi?
Ma come avvenne l'incontro tra Scola e Troisi?
«Non è stato per il cinema, la prima volta che ho visto Massimo faceva teatro con la Smorfia, in trio con Enzo Decaro e Lello Arena, e mi colpì la sua comicità, studiata e attenta a non cadere negli stereotipi, cosa non scontata per un napoletano. Per Troisi la farsa doveva sempre contenere un aspetto di critica costruttiva. Era un artista ‘‘impegnato'', parola oggi dimenticata, purtroppo, lui studiava e conosceva profondamente il suo tempo. Ad esempio lui e Volonté non hanno nulla in comune, sono due attori completamente diversi, ma erano entrambi due intellettuali».
Che stavano per lavorare insieme.
«A dir la verità furono loro a propormi un progetto: volevano interpretare due anarchici sconclusionati in giro per l'Italia agli inizi del Novecento. Purtroppo, poi, non si fece più nulla».
Com'era Troisi sul set?
«Eravamo come due familiari che lavorano insieme, tra me e lui c'era una grande complicità. Avevamo un rapporto fatto di comprensione, stima e di ‘‘consolanza'': provavamo entrambi un grande piacere nel lavorare insieme, ci scambiavamo consigli e pareri. I suoi film in quegli anni erano campioni d'incassi, un po' come il fenomeno Checco Zalone di adesso. Io stesso gli dicevo che fare film con me non gli conveniva, erano un genere troppo di nicchia. Lui invece mi rispondeva: ‘‘Ettore con te mi riposo e non mi sembra di faticare''. Questo per un regista era un grande complimento».
Che cosa faceva arrabbiare Troisi?
«S'indignava quando gli dicevano delle ovvietà sull'essere meridionale. Nei suoi film da regista, viene fuori questa sua riflessione, per esempio, sull'uomo del Sud condannato ad emigrare e mai a spostarsi per conoscenza. La sua forza? Riusciva a comunicare anche senza farsi capire. Il suo modo di parlare non era chiaro, lui si mangiava le consonanti e la fine delle parole. Era un grande attore comico, ma oserei dire anche del cinema muto. Si era liberato di certe preoccupazioni che avevano gli attori e parlava agli spettatori con lo sguardo».
Scola cosa consiglia di vedere nella retrospettiva?
«Sicuramente i suoi film d'esordio che colpirono l'immaginario italiano per la loro originalità, un comico del sud che si ribellava al ‘‘sudismo''. E poi ovviamente i miei, frutto di un rapporto quasi tra padre e figlio che non si è mai interrotto».
Michele Ventrella
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