Alle volte ci accingiamo imperterriti a cercare ciò che più amiamo con l’idea di trovare a tutti i costi quello in cui crediamo. Non sempre è così, ma in questo caso…
Che ora è? Ore 8:05 stazione Termini, binario 25, avevo dimenticato che fosse uno degli ultimi, una distanza da accorciare solo correndo.
Ore 8:15 partenza: direzione Civitavecchia.
Immediatamente l’affanno subiva un arresto inaspettato, aprendo il varco ad uno stato emotivo già noto: una serenità; un affetto improvviso a dir poco familiare; una voglia di andare, tornare e di nuovo andare, pur di ritrovare… Un po’ come capita a chi si mette in viaggio per ritrovare un proprio caro portato via dal tempo, che ad un certo punto e chissà per quale arcana ragione ci si ritrova a rivivere comunque in un modo o nell’altro.
Mentre il treno si muoveva lentamente e si lasciava alle spalle gli addii delle partenze, poco lontano, alla mia sinistra, altri suoi simili fermi, in rimessa, forse in disuso mi hanno portato alla mente l’immagine di quel bambino che ogni anno sperava in un dono diverso, ma che puntualmente riceveva sempre e solo l’ennesimo trenino. Che scema quella befana!
All’arrivo, Civitavecchia aveva l’aspetto tipico che si scorge quando il vento e la pioggia bisticciano con il mare dando origine a suoni, immagini e addirittura dialoghi, ben rappresentati nell’invenzione di Ettore Scola, trasfusa nella pellicola del 1989 propriamente intitolata “Che ora è”.
Uno dei capolavori più delicati sul tema del contrasto generazionale padre-figlio, ma soprattutto di un padre e di un figlio che con un po’ di ritardo scoprono di non conoscersi abbastanza e che lentamente, ripercorrendo le fila dei ricordi e delle parole non dette, portano alla luce i disagi e le incomprensioni trascorse. Il tutto dietro uno scenario fermo, dalle luci basse; che sa di umido come tutti i ricordi, anche un po’cupo, che paradossalmente rende vivo tutto ciò che viene a galla.
A distanza di 22 anni il teatro Traiano di Civitavecchia rende omaggio ai protagonisti del film, Massimo Troisi e Marcello Mastroianni, con una mostra fotografica realizzata con le foto di Mario Tursi, da poco scomparso.
All’arrivo il teatro sembrava attendermi, entro, mi giro intorno, un po’ disorientata direi, forse dall’emozione. Un momento assai difficile da descrivere, volevo riempirmi di quegli sguardi, umori, sorrisi accesi, accennati, di ogni ghigno impresso lì sulle stampe, riempirmi di tutto ciò che era stato.
Inizio pian piano a scorgere una serie di foto, ordinate in successione in base alle scene del film. Più che in un teatro sentivo di stare in una chiesa, un luogo caro, ma sacro.
Lentamente mi sono affacciata nella sala per guardare da dove aveva inizio tutto quello che stavo cercando e retrocedendo di qualche passo, per un attimo ho sperato che quel percorso numerato fosse più lungo del previsto.
E’ bastato il primo telo su cui si adagiavano le prime foto ed improvvisamente eccomi lì! Un balzo vertiginoso mi ha buttata in quella storia dai toni grigi; in quei giorni trascorsi e rappresentati passo dopo passo dalle foto successive, ed io, senza avere la benché minima cognizione di quello che fu veramente, ho cominciato a rivivere momento dopo momento, tutte le dinamiche di un set.
Mentre seguivo lentamente l’ordine delle scene, sono stata assalita da una strana sensazione: non si trattava di un set qualunque dove si dava vita semplicemente ad una sceneggiatura, ma di un set che, volutamente o non, narrava la storia vera di due uomini diversi, ma complementari: Massimo, più giovane, dedito al gioco, ma con la consapevolezza che solo lui conosceva alla sua età, ripreso a volte in momenti di grande riflessione e Marcello, che fuori dal set più che un papà sembrava essere un consigliere, un sostegno, un caro zio che avendo qualche anno in più si muoveva da gran benefattore elargendo e tramandando aneddoti, proverbi ed esperienze a chi in quel momento gli stava più vicino.
Due uomini diversi, dal cui volto si evinceva il senso di ogni cosa che si muoveva nelle loro vite.
La sensazione che si prova guardandole tutte, sia quelle sul set, che fuori dal set è che questi due uomini alternino momenti di giocosità assoluta a momenti di forte compostezza.
Scene oggi inusuali.
Una carrellata di pose, che dall’inizio alla fine sembrano rappresentare con minuzia di particolari tutta la mimica dell’uomo-attore. Paradossalmente la semplicità delle immagini descrive ed esalta la poliedricità dell’artista. Invano risulterebbe l’intenzione di descriverle tutte, perché in ognuna vi sono mille sfaccettature ed ognuna racconta i sorrisi e le lacrime di una vita.
Ci sarebbe troppo da dire…
Ve n’è una che ritrae Massimo seduto ed attorniato da una decina di giovani leve rigorosamente in divisa da cui si evince l’espressione tipica del compagnone qual’era, addolcita da un leggero imbarazzo e da quella timidezza che in fondo non lo aveva mai abbandonato.
Un’altra molto intensa, una tra le più belle, dove lui seduto su un vecchio muretto, con il capo girato, con una gamba penzoloni e l’altra richiusa e riposta in alto verso di se, mostra un profilo inedito, con lo sguardo di un pensatore rivolto in lontananza.
E poi ancora lui, con i suoi sorrisi variopinti di allegria, consumati di ironia, dolci, amari che prova un giro di giostra con Mastroianni.
Sempre lui che segue interessato un discorso di Scola, che chissà quali consigli gli avrà riservato.
Lui, il ragazzo del 1989, schivo, modesto e generoso, alle volte straordinariamente “biricchino”.
Ancora una volta ho trovato tutto quello che cercavo…
Angela Paoletta